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Come deve essere svolto l’accertamento dei presupposti per l’attivazione dell’Amministratore di Sostegno?

L’accertamento dei presupposti per la nomina di Amministratore di Sostegno deve essere compiuto in maniera specifica, circostanziata e focalizzata, sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario, sia rispetto all’incidenza della stessa sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali. Occorre quindi verificare la possibilità, in concreto, che tali esigenze possano essere attuate anche con strumenti diversi come ad esempio avvalendosi, in tutto o in parte, di un sistema di deleghe o di una rete familiare. Questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 32623 pubblicata il 4 novembre 2022. 

Il caso trae origine dalla pronuncia della Corte d’Appello di Bologna, che aveva rigettato il reclamo promosso dal beneficiario avverso il provvedimento con cui il Giudice Tutelare aveva nominato come Amministratore di Sostegno la moglie dello stesso, con poteri limitati alla cura della sua persona e co-amministratore un avvocato a cui era stata affidata la gestione patrimoniale.

I giudici di merito avevano condiviso le argomentazioni che avevano condotto il Giudice Tutelare all’applicazione della misura di protezione in favore del reclamante, poiché la ritenevano rispondente alle esigenze economiche, personali ed esistenziali del beneficiario, sebbene l’indagine tecnica avesse escluso che la sua malattia inficiasse la capacità di intendere e di volere, e quella di provvedere ai propri interessi.

La Corte territoriale aveva osservato che la capacità dell’amministrato di condurre l’attività lavorativa con dedizione e sacrificio, se pur apprezzabile, non consentiva di giustificare la grave situazione di dissesto economico che si era creata negli anni, e che rischiava di portarlo alla perdita dell’alloggio Aler. Il giudice del reclamo, pertanto, aveva ritenuto che gli evidenti problemi di gestione patrimoniale del beneficiario potevano trovare una soluzione nell’aiuto del co-amministratore di sostegno, che avrebbe coinvolto il beneficiario informandolo e consultandolo al fine di effettuare le migliori scelte. 

Contro tale pronuncia il beneficiario ha promosso ricorso per Cassazione, contestando la decisione sulla base del fatto che la Corte d’Appello aveva riconosciuto nella figura dell’ADS un ausilio per una malattia invalidante solo a livello fisico, e per una esposizione debitoria.

La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha chiarito che la finalità cui tende l’Amministrazione di Sostegno è “proteggere le persone fragili, ovvero coloro che si trovano in difficoltà nel gestire le attività della vita quotidiana e i propri interessi, o che addirittura si trovano nell’impossibilità di farlo (art. 1, della Legge istitutiva, n. 6 del 2004: “(…) tutelare (…) le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana “.). Tuttavia, nell’appena menzionato art. 1, si avvertono i destinatari delle prescrizioni normative che la tutela dell’amministrato deve avvenire: “con la minore limitazione possibile della capacità di agire (…)” A tal riguardo si è giustamente parlato dell’esistenza di una precisa direttiva tesa a -“non mortificare” la persona, da realizzare evitando o riducendo, quanto più possibile, la limitazione della capacità di agire dell’interessato così da non intaccare la dignità personale del beneficiario (art. 2 Cost.), conservandogli il più possibile la capacità di agire”.

La contrarietà all’attivazione della misura di sostegno se proviene da persona pienamente lucida deve essere tenuta in debita considerazione. Diverso il caso in cui l’interessato rifiuti il consenso o si opponga alla nomina dell’amministratore proprio a causa della patologia psichica che lo rende inconsapevole del bisogno di essere aiutato.

Il difficile equilibrio da trovare deve essere guidato dalla necessità di privilegiare il rispetto dell’autodeterminazione del soggetto, distinguendo il caso in cui la protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe, in precedenza attivato autonomamente dal beneficiario, da quello in cui la nomina dell’amministratore di sostegno risulta necessaria poiché non vi è alcun supporto e la riluttanza della persona fragile si fonda su un senso di orgoglio ingiustificato, con il rischio di non dare una adeguata tutela ai suoi stessi interessi. 

Nel caso di specie, nessun accertamento è stato svolto sulla potenzialità di una funzione vicariante della moglie, o della predisposizione di un sistema di deleghe che potesse supportare il ricorrente negli aspetti più complessi della gestione non ordinaria del suo patrimonio, assicurando al medesimo soggetto il perseguimento dei propri interessi, secondo i principi di autodeterminazione e rispetto della dignità dell’interessato.

La Suprema Corte ha, pertanto, cassato la decisione e rinviato la causa alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione per una nuova valutazione.

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Dopo essersi diplomata al Liceo Classico Salvatore Quasimodo di Magenta, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a pieni voti presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014, con tesi in diritto dell’esecuzione penale e del procedimento penale minorile, analizzando l’istituto del “Perdono Giudiziale”.

Coltivando l’interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia, dall’aprile 2014 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio, dove nel settembre de 2018, è diventata Avvocato, del Foro di Milano.