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Aiutare il coniuge al lavoro

Aiutare il coniuge sul lavoro è lecito o si tratta di lavoro nero?

(A cura della Redazione)

Cosa accade se un coniuge si fa aiutare sul lavoro dall’altro?  E’  possibile essere coadiuvati sul lavoro a titolo gratuito?

Per rispondere alla domanda dobbiamo distinguere se l’ “aiutato” è titolare dell’attività lavorativa, oppure se è un lavoratore dipendente di un altro datore di lavoro (il quale è all’oscuro del fatto che il proprio dipendente si fa aiutare appunto dal coniuge nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative).

Nel caso di coniuge ovvero unito civilmente titolare di impresa o attività di lavoro autonomo, la prestazione lavorativa è ammissibile anche se resa al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato e non viene considerata lavoro nero allorquando questa si concretizza in sporadiche attività svolte nello stesso ambito dell’attività di impresa, ovvero funzionali ad essa, come ad esempio istaurare e/o mantenere saltuariamente i rapporti col la clientela tramite invio di mail, contatti telefonici.

In questi casi, infatti, la Corte di Cassazione ha affermato che la prestazione è resa “affectionis vel benevolentiae causa”, e per tale ragione si presume a titolo gratuito fino a prova contraria (Cass. Civ. n. 20904 del 30 settembre 2020).

Aiutare il coniuge o l’unito civilmente sul lavoro spontaneamente o per adempiere a doveri familiari (ad esempio, doveri reciproci tra i coniugi, dei genitori verso i figli e viceversa) trova il proprio fondamento nel rapporto affettivo e di solidarietà che lega i membri della famiglia, in virtù di un’obbligazione “morale” ed “affettiva”, al di fuori di qualsiasi vincolo giuridico.

La prestazione però deve avere la caratteristica della “occasionalità” e deve essere contenuta in 90 ore annuali: diversamente si rientra nel caso dell’impresa familiare regolata dall’art. 230 bis c.c. applicabile anche alle unioni civili ai sensi dell’art. 13 L.76/2016.

L’occasionalità è confermata dallo svolgimento di compiti di in modo non sistematico né stabile, tali da non rientrare nella gestione ordinaria dell’attività di impresa.

Diverso è il caso in cui l’aiutato sia lavoratore dipendente di un’altra azienda.

In questo caso si configura un’ipotesi di lavoro nero perseguibile penalmente, con conseguenti sanzioni per il datore di lavoro. Non vi è infatti alcun motivo di affetto tra il datore e colui che aiuta e non è previsto alcun tipo di compenso economico. Se l’azienda si accorge che il proprio dipendente delega al coniuge o all’unito civilmente alcune mansioni, anche se saltuariamente, dovrà prendere subito le distanze da tale comportamento, con una lettera di diffida rivolta al lavoratore, in cui gli viene comunicato il divieto di farsi sostituire da qualsiasi altra persona nelle sue mansioni.

Questa situazione espone il datore di lavoro a diverse responsabilità sul piano civile in caso di infortuni, sul piano economico-fiscale in caso di accertamenti e sul piano assicurativo-previdenziale in caso di accertamento da parte dell’ispettorato del lavoro.

Infine si viola il rapporto contrattuale tra datore di lavoro e dipendente che deve adempiere personalmente la prestazione lavorativa, interferendo sul c.d rapporto sinallagmatico ovvero di scambi tra prestazione lavorativa e retribuzione ex art. 2094 c.c.

Quindi alla domanda: “il lavoro gratuito è ammesso fra coniugi o uniti civilmente?” possiamo rispondere che è consentito a condizione che la collaborazione sia sporadica, non vi sia l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e non sia oneroso e sopratutto che l’aiutato  non sia a sua volta un lavoratore dipendente.

Se desideri approfondire questo argomento puoi contattarci in Studio al numero 02.43982209 oppure inviare una mail a studio@dinellalex.it

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