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La richiesta del versamento all’ex con una pluralità di messaggi è condotta molesta?

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

La Cassazione si è recentemente pronunciata con riferimento alla condotta di una donna che mandava molti messaggi (anche con toni duri e offensivi) al proprio ex per il mancato pagamento della somma stabilita dal Tribunale civile per il mantenimento dei figli (sent. n. 44477/24). La richiesta era diventata impellente in considerazione dello stato di difficoltà economica della stessa durante il periodo del Covid.

L’ex la denunciava per molestie, allegando molti messaggi scritti e vocali e il Tribunale di Locri la assolveva ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (fatto tenue) condannandola al risarcimento del danno in favore della parte civile, liquidato in via equitativa. Il Giudice riteneva infatti provata la sussistenza del reato dalle dichiarazioni della persona offesa, dai messaggi scritti e vocali pervenuti sulla sua utenza telefonica e dalla stessa registrati, connotati da petulanza.

Avverso la sentenza proponevano appello il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri e l’imputata; gli appelli sono stati qualificati come ricorsi per cassazione per l’inappellabilità stabilita dall’art. 593 , comma 3, cpp.

Il Procuratore sosteneva l’erronea applicazione della norma sulla tenuità del fatto per la condotta abituale contestata, essendo la consumazione del reato proseguita a lungo e attraverso una pluralità di molestie, qualificabili come un’unica condotta abituale.

L’imputata deduceva la violazione di legge, per avere la sentenza omesso di valutare la reciprocità delle offese e l’insussistenza del reato per mancanza degli elementi. Sosteneva che l’unico motivo dell’invio dei messaggi era la richiesta di versamento della somma stabilita dal Tribunale civile per il mantenimento dei figli e i toni offensivi erano dovuti al contesto socio-culturale delle due parti. La documentazione esaminata non avrebbe dato conto dell’atteggiamento offensivo della persona offesa, perché non integrale, mancando i messaggi scritti e vocali di quest’ultima. Inoltre sostiene che l’invio di un messaggio non costituisca, in sé, una molestia, perché il destinatario potrebbe non aprirlo: era stata una scelta di quest’ultimo, leggerlo e rispondere.

Alcuni messaggi provenivano dal figlio minore e l’affermazione del Tribunale, che essi fossero stati suggeriti dalla madre, non potendo per il loro contenuto provenire dal minore, è del tutto sfornita di prova. E ancora, il reato non può essere ritenuto continuato, non essendo stato contestato l’ art. 81 comma 2, cod. pen.; è, infine, errata anche la liquidazione di un risarcimento in favore della parte civile, peraltro non motivata, non essendo provato alcun danno.

Secondo la Cassazione il ricorso proposto dall’imputata è infondato e deve essere rigettato. Con riferimento al requisito della petulanza o del biasimevole motivo, secondo la ricorrente i suoi messaggi non sarebbero offensivi, ma solo diretti a sollecitare all’ex compagno l’adempimento di un suo dovere.

Tale affermazione è per la Suprema Corte infondata: il Giudice ha tenuto conto delle ragioni del comportamento della donna, tanto da ritenerlo costituito da “petulanza” e da individuare la sussistenza del “biasimevole motivo” nelle frasi fatte pronunciare dal figlio minore.
La motivazione della sentenza impugnata è sul punto corretta e conforme ai principi giurisprudenziali, secondo i quali l’esercizio di un diritto “non esclude la contravvenzione se esso avviene con modalità petulanti”, cioè con atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera di libertà.

Oltretutto l’elemento soggettivo del reato “consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto”.

Per quanto riguarda la reciprocità delle offese/ molestie, essa può escludere la sussistenza del reato di cui all’art. 660 cod. pen., eliminando il requisito della petulanza, a una condizione: tra le condotte dell’imputato e della vittima vi deve essere “stato un rapporto di immediatezza o, comunque, un nesso di interdipendenza” e questo non è stato affermato dalla ricorrente: non vi è, pertanto, alcuna prova dell’asserita reciprocità delle molestie.

Infondata è anche l’affermazione relativa alla insussistenza del reato perché le molestie erano fatte con messaggi, che il destinatario poteva scegliere di non visionare. Ed invero dalla sentenza impugnata emerge che il tentativo della persona offesa di impedire la prosecuzione delle molestie da parte della ricorrente, compiuto bloccando la sua utenza, è stato da lei aggirato utilizzando il telefono cellulare di uno dei figli minori, istigandolo a inviare egli stesso al padre messaggi vocali molesti e ingiuriosi.

Inoltre la norma punisce le molestie compiute “col mezzo del telefono”, utilizzando tutte le funzioni di questo strumento: ciò che rileva è il carattere invasivo del mezzo e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere o prevenire l’azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l’utenza non gradita; costituisce, quindi, molestia anche l’invio di messaggi telematici di testo (SMS  o whatsapp).

Infine è infondata anche la censura in merito alla liquidazione del danno in favore della parte civile: il Giudice ha liquidato il solo danno morale in via equitativa, conformandosi alla giurisprudenza  secondo cui in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l’obbligo motivazionale mediante l’indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l’ammontare del risarcimento. E la sentenza, attraverso la ricostruzione della condotta molesta e la valutazione della sua natura petulante, motiva sufficientemente la sussistenza di un danno non patrimoniale; la modesta entità della somma liquidata in via equitativa rende non necessaria una sua specifica giustificazione.

Il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, invece, è stato ritenuto fondato ed è stato accolto. Costituisce infatti un principio giurisprudenziale consolidato la non applicabilità dell’istituto previsto dall’ art. 131-bis cod. pen. nel caso di un reato necessariamente abituale o di un reato eventualmente abituale ma compiuto con condotte ripetute, come il reato di molestia.

Nel caso sottoposto alla Cassazione la condotta molesta si è estrinsecata in una pluralità di messaggi, inviati separatamente e in tempi diversi, anche dal figlio dell’imputata con un diverso telefono. Sussiste, pertanto il requisito della abitualità del reato, ostativo all’applicazione dell’ art. 131-bis , quarto comma, cod. pen.

La sentenza impugnata è stata quindi annullata limitatamente al punto della applicazione dell’istituto di cui all’ art. 131-bis cod. pen., con rinvio al Tribunale di Locri per un nuovo giudizio su tale punto, tenendo conto della sopravvenuta definitività della decisione in merito alla sussistenza del reato e alla responsabilità dell’imputata per esso.

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Avv. Stefania Crespi

Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.