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Violenza sessuale: le incredibili motivazioni dei Giudici di merito che si distaccano dai principi della Cassazione

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

Leggiamo sulla stampa di sentenze relative al delitto di violenza sessuale, che assolvono (o condannano) gli imputati con motivazioni che destano perplessità e preoccupazione.

La Corte di Appello di Torino ha recentemente emesso sentenza di assoluzione, annullando la condanna di primo grado, perché la vittima, ubriaca, lasciando la porta del bagno socchiusa, avrebbe indotto l’imputato a “osare“.

Durante il processo è emerso che un uomo e una danna, che si conoscevano da anni, si sono incontrati per strada. In passato si erano baciati, ma lei aveva chiarito che non voleva iniziare una relazione sentimentale, come del resto ammesso in primo grado dall’imputato.

Si sono recati insieme in un bar e lei, dopo qualche bicchiere, è andata in bagno, facendosi accompagnare dal ragazzo: ha lasciato la porta socchiusa e ha chiesto all’amico di porgerle dei fazzoletti.

Il ragazzo sarebbe entrato, avrebbe tappato la bocca di lei con una mano e le avrebbe sfilato i pantaloni, strappandone la cerniera. Lei avrebbe detto più volte “Non voglio” e per questo il Giudice riteneva sussistente la violenza sessuale e lo condannava a 2 anni e 2 mesi di reclusione.

La Corte d’Appello di Torino ha, invece, assolto perché “non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa …si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire”.

E ancora “Al momento dei fatti la ragazza era alterata per un uso smodato di alcol … è quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé quando richiese di accedere al bagno, provocò l’avvicinamento del giovane che invero la stava attendendo dietro la porta, custodendo la sua borsetta”.

Inoltre “L’unico dato indicativo del presunto abuso potrebbe essere la cerniera rotta, ma l’uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura”.

La Procura Generale ha presentato ricorso per cassazione, chiedendo che venga annullata la sentenza della Corte d’Appello, poiché questa “dimostra di non applicare i principi giurisprudenziali in tema di consenso all’atto sessuale”.

Ed è proprio questo il punto: la Cassazione ha espresso principi chiari, divenuti consolidati, che insistono sull’importanza del consenso al rapporto sessuale, al fine di escludere la sussistenza del reato.

Ha destato perplessità anche la motivazione della recente sentenza di condanna della Corte di Firenze, nella parte in cui parla di “cortocircuito mentale” e “istinti normalmente controllabili” dell’imputato, un ex militare accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza americana.

Più precisamente “La ricostruzione dei cinque-sei minuti incriminati non può che ricondursi alle iniziative parallele dei due militari che in un cortocircuito mentale e presi da istinti normalmente controllabili hanno messo a rischio la loro stessa carriera nell’Arma oltre a commettere un reato dallo stesso imputato definito mostruoso”.

Un’altra sentenza con una motivazione incredibile è quella del Tribunale di Busto Arsizio del gennaio 2022, che ha escluso la sussistenza del reato, perché la reazione della vittima di fronte alla violenza è stata di 20 secondi.

Il “palpeggiamento” è definito violenza sessuale da tempo, indipendentemente dalla reazione – immediata o meno della vittima – se dal contesto è desumibile il mancato consenso.

A giugno 2022 la Cassazione ha annullato una sentenza di assoluzione  di una Corte d’Appello umbra per violenza sessuale, ritenendo illogica la motivazione adottata, ossia che la vittima non poteva essere stata stuprata, perché “mascolina” e quindi “non abbastanza attraente”.

E ancora: il Tribunale di Torino nel 2017 basò la motivazione per l’insussistenza del fatto sulla mancata reazione della vittima, perché non aveva urlato, né pianto; non aveva tradito “quella emotività che pur avrebbe dovuto suscitare in lei la violazione della sua persona”; non aveva riferito sensazioni o condotte spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, parlando “solo di malessere” senza saper spiegare in cosa consistesse. Si era limitata a dire “basta” e questo per il Tribunale non era sufficiente per l’integrazione della violenza sessuale.

La Cassazione, annullando con rinvio, richiedeva una nuova valutazione sulla reazione della vittima di stupro, che può essere talmente spaventata e scioccata da non riuscire a proferire parola, nemmeno “basta” o anche un semplice “no”.

Questa sentenza fa tornare alla mente il film “Sotto Accusa” – basato su una storia vera – in cui Sarah, il personaggio interpretato da Jodie Foster, viene violentata da più uomini su un biliardo in un bar; la difesa degli accusati punta sul fatto che la donna, indossando una minigonna, avendo bevuto alcolici ed avendo un atteggiamento provocatorio, ha sostanzialmente acconsentito ai rapporti, anche perché si era limitata ad affermare “un semplice no”.

Ha destato scalpore lo scorso dicembre la richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero di Benevento per il quale “è comune negli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito – particolarmente amante della materia – tenta un approccio sessuale”.

Un ‘semplice no’, la mancanza di pianti, il ‘minimo di resistenza’, la reazione in 20 secondi, la mascolinità della vittima e ora la porta socchiusa: pare si stia regredendo ai tempi della “sentenza dei jeans”: la Suprema Corte stabilì nel 1999 che “è un dato di comune esperienza” che non si possano sfilare i jeans senza la “fattiva collaborazione di chi li porta”.

Fortunatamente, in seguito, gli Ermellini sottolinearono che le dichiarazioni della vittima di violenza sessuale non potessero essere messe in dubbio solo perché indossava un paio di jeans: spesso toglie i pantaloni, in quanto minacciata e teme un male peggiore (come la morte).

Tale principio è stato ribadito nel 2008 con la sentenza n. 30403: indossare pantaloni stretti ed aderenti non può essere considerato elemento per escludere la sussistenza della violenza sessuale.

E’ auspicabile, da un lato, che la Corte di Cassazione continui a ribadire la assoluta rilevanza del consenso; dall’altro che i Giudici di merito lo applichino, evitando di formulare motivazioni illogiche e, soprattutto, cercando di utilizzare correttamente le parole, che a volte trasformano la donna stuprata in “vittima colpevole”.

Infine, sarebbe opportuna un’adeguata formazione – anche sotto il profilo psicologico – sul reato di violenza sessuale per i magistrati, ma anche per i ragazzi e le ragazze a scuola, per far comprendere loro cosa significhino esattamente il consenso e il dissenso.

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