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Sottrazione e trattenimento di minore all’estero: quando è competente il Giudice italiano?

Home  /   Sottrazione e trattenimento di minore all’estero: quando è competente il Giudice italiano?
8 Maggio 2018
DIRITTO DI FAMIGLIA INTERNAZIONALE
giudice, minore

Sottrazione e trattenimento di minore all’estero: quando è competente il Giudice italiano?

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17 Aprile 2018
Non categorizzato
orange table

Orange Table Network

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22 Marzo 2018
DIRITTO DI FAMIGLIA
diritto di famiglia, donne

Le donne e il cambiamento nel diritto di famiglia

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1 Febbraio 2018
PSICOLOGIA

Corso formativo psico-giuridico “la competenza emotiva e i giochi psicologici”

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24 Novembre 2017
DIRITTO DELLE PERSONE
violenza

Le soluzioni stragiudiziali alla conflittualità estrema. La non applicabilità ai casi di violenza

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10 Ottobre 2016
Non categorizzato
immigration, training

Training of Lawyers in European Law relating to Asylum and Immigration (TRALIM)

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Da Instagram

Il giudice, pronunciando la separazione personale dei coniugi, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.

Questo quanto previsto dall’art. 151 comma 2 c.c., ma quando, concretamente, è possibile chiedere l’addebito della separazione a carico del marito o della moglie che abbia violato i doveri coniugali?

La vicenda che fornisce l’occasione dell’approfondimento trae origine da una decisione del Tribunale di Ferrara che pronunciava la separazione personale dei coniugi con addebito al marito stanti le dichiarazioni di un teste che affermava di aver visto il marito in un incontro amoroso con un’altra donna, poi, oltretutto, divenuta la nuova compagna dello stesso.

Se i giudici di primo grado disattendevano la ricostruzione effettuata dall’uomo che faceva risalire l’insorgere della crisi a ben tre anni prima rispetto al tradimento, la Corte di Appello di Bologna, invece, riteneva provata la tesi dell’uomo e di conseguenza riformava la decisione del tribunale di Ferrara respingendo la domanda di addebito.

Arrivata la questione avanti la Corte di Cassazione, gli Ermellini con l’ordinanza n. 13858 del 24 maggio 2025, rigettavano il ricorso della donna ed affermavano che “in tema di separazione dei coniugi, va escluso l’addebito in caso di tradimento se nella coppia c’è già disaffezione. Spetta pertanto al richiedente dimostrare la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio”.

E voi che ne pensate?

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Il giudice, pronunciando la separazione personale dei coniugi, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio. 

Questo quanto previsto dall’art. 151 comma 2 c.c., ma quando, concretamente, è possibile chiedere l’addebito della separazione a carico del marito o della moglie che abbia violato i doveri coniugali?

La vicenda che fornisce l’occasione dell’approfondimento trae origine da una decisione del Tribunale di Ferrara che pronunciava la separazione personale dei coniugi con addebito al marito stanti le dichiarazioni di un teste che affermava di aver visto il marito in un incontro amoroso con un’altra donna, poi, oltretutto, divenuta la nuova compagna dello stesso. 

Se i giudici di primo grado disattendevano la ricostruzione effettuata dall’uomo che faceva risalire l’insorgere della crisi a ben tre anni prima rispetto al tradimento, la Corte di Appello di Bologna, invece, riteneva provata la tesi dell’uomo e di conseguenza riformava la decisione del tribunale di Ferrara respingendo la domanda di addebito. 

Arrivata la questione avanti la Corte di Cassazione, gli Ermellini con l’ordinanza n. 13858 del 24 maggio 2025, rigettavano il ricorso della donna ed affermavano che “in tema di separazione dei coniugi, va escluso l’addebito in caso di tradimento se nella coppia c’è già disaffezione. Spetta pertanto al richiedente dimostrare la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio”.

E voi che ne pensate?

Il rapporto dei bambini con i nonni può essere una grande risorsa per tutti: i nonni, nella società attuale, sempre più frequentemente svolgono un ruolo educativo oltre che affettivo e pratico, permettendo ai genitori di poter lavorare e di condividere con loro i vari aspetti pratici e organizzativi.

Ecco allora che da oltre 10 anni il rapporto nonni-nipoti è tutelato a livello normativo. Il decreto legislativo 154/2013 ha infatti introdotto nel codice civile gli articoli 315 bis e 317 bis che sanciscono il diritto dei nonni a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni.

Attenzione però! Tale diritto però non è assoluto e incondizionato. Il giudice, infatti, per disporre il mantenimento dei rapporti, deve accertare il preciso vantaggio che deriva dalla partecipazione dei nonni al progetto educativo e formativo che riguarda i nipoti.

Ne ho parlato oggi sull’ultimo numero di F da oggi in edicola!

#avvdinella #dirittodifamiglia

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Il rapporto dei bambini con i nonni può essere una grande risorsa per tutti: i nonni, nella società attuale, sempre più frequentemente svolgono un ruolo educativo oltre che affettivo e pratico, permettendo ai genitori di poter lavorare e di condividere con loro i vari aspetti pratici e organizzativi.

Ecco allora che da oltre 10 anni il rapporto nonni-nipoti è tutelato a livello normativo. Il decreto legislativo 154/2013 ha infatti introdotto nel codice civile gli articoli 315 bis e 317 bis che sanciscono il diritto dei nonni a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni.

Attenzione però! Tale diritto però non è assoluto e incondizionato. Il giudice, infatti, per disporre il mantenimento dei rapporti, deve accertare il preciso vantaggio che deriva dalla partecipazione dei nonni al progetto educativo e formativo che riguarda i nipoti.

Ne ho parlato oggi sull’ultimo numero di F da oggi in edicola!

#avvdinella #dirittodifamiglia

Inefficaci per il terzo creditore e quindi revocabili, gli atti di disposizione del patrimonio tra coniugi anche se attuati in esecuzione di accordi presi in sede di separazione.

➡ All’interno di un accordo di separazione, quale contributo al mantenimento della moglie, i coniugi stipulavano un atto pubblico con cui il marito cedeva alla coniuge la proprietà dell’unico immobile di cui era proprietario;

➡ Tuttavia, alla data della stipula di tale atto il marito era già debitore nei riguardi di una società terza che, tra l’altro, sulla base di un decreto ingiuntivo aveva già, senza esito, notificato pignoramenti immobiliari;

➡ Secondo i giudici, di primo e secondo grado, tale cessione costituiva pregiudizio per le ragioni creditorie della società terza avendo il debitore sottratto dal proprio patrimonio la garanzia di soddisfacimento del credito altrui e vi era altresì, nel marito, la consapevolezza di stare arrecando un danno;

➡ Pertanto, i giudici dichiaravano esperibile l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e così inefficace, nei riguardi della società creditrice, tale atto di disposizione contenuto nelle condizioni di separazione.

E voi cosa ne pensate?

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Inefficaci per il terzo creditore e quindi revocabili, gli atti di disposizione del patrimonio tra coniugi anche se attuati in esecuzione di accordi presi in sede di separazione. 

➡ All’interno di un accordo di separazione, quale contributo al mantenimento della moglie, i coniugi stipulavano un atto pubblico con cui il marito cedeva alla coniuge la proprietà dell’unico immobile di cui era proprietario;

➡ Tuttavia, alla data della stipula di tale atto il marito era già debitore nei riguardi di una società terza che, tra l’altro, sulla base di un decreto ingiuntivo aveva già, senza esito, notificato pignoramenti immobiliari;

➡ Secondo i giudici, di primo e secondo grado, tale cessione costituiva pregiudizio per le ragioni creditorie della società terza avendo il debitore sottratto dal proprio patrimonio la garanzia di soddisfacimento del credito altrui e vi era altresì, nel marito, la consapevolezza di stare arrecando un danno;

➡ Pertanto, i giudici dichiaravano esperibile l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e così inefficace, nei riguardi della società creditrice, tale atto di disposizione contenuto nelle condizioni di separazione.

E voi cosa ne pensate?

L’attuale assetto normativo che non consente alle donne single di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l’autodeterminazione a diventare madre ma non è manifestamente irragionevole e sproporzionato.

Ancora una volta la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate questa volta dal Tribunale di Firenze in data 4 settembre 2025, sull’articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.

Una donna si era infatti rivolta al Centro procreazione assistita Demetra srl richiedendo di poter accedere alla PMA e a fronte del diniego ricevuto, la donna aveva proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo.
In via subordinata, aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo.

Ritenuto che la legge sulla PMA oggi contiene un divieto di accesso per le persone singole, il Tribunale di Firenze rimetteva la questione alla Corte Costituzionale che però ribadito che ad oggi il legislatore non avalla un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre e che quindi - di fronte a rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari - solo il legislatore può intervenire su tale assetto normativo.

Sarà la volta buona per il legislatore ? O continuerà a far finta di nulla?

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L’attuale assetto normativo che non consente alle donne single di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l’autodeterminazione a diventare madre ma non è manifestamente irragionevole e sproporzionato.

Ancora una volta la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate questa volta dal Tribunale di Firenze in data 4 settembre 2025, sull’articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.

Una donna si era infatti rivolta al Centro procreazione assistita Demetra srl richiedendo di poter accedere alla PMA e a fronte del diniego ricevuto, la donna aveva proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo.
In via subordinata, aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo. 

Ritenuto che la legge sulla PMA oggi contiene un divieto di accesso per le persone singole, il Tribunale di Firenze rimetteva la questione alla Corte Costituzionale che però ribadito che ad oggi il legislatore non avalla un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre e che quindi - di fronte a rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari -  solo il legislatore può intervenire su tale assetto normativo. 

Sarà la volta buona per il legislatore ? O continuerà a far finta di nulla?

La Corte di Cassazione con la decisione n. 12121/2025 ha affermato che “il genitore separato è tenuto a versare l’assegno al figlio ventenne, a maggior ragione se è una ragazza, se vivono al sud, dove le opportunità di lavoro sono più basse”.

La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Ragusa che, nel pronunciare la separazione personale dei coniugi, ha revocato l’assegno di mantenimento in favore della figlia, originariamente concesso in via provvisoria, poiché nel frattempo era divenuta maggiorenne.

Anche la Corte di Appello di Catania aveva confermato la revoca poiché la ragazza ormai ventenne non aveva provato di essere impegnata a studiare o a lavorare.

La madre adiva quindi la Cassazione che, invece, accogliendone il ricorso, ribadiva in modo molto approfondito che la legge, in punto diritto al mantenimento, non distingue tra figli minorenni e maggiorenni e che l’onere dei genitori non cessa automaticamente con il compimento dei 18 anni. Ciò che conta, ha ribadito la Corte è il raggiungimento dell’indipendenza economica da valutarsi con riferimento all’età, all’impegno nello studio o nel lavoro e al contesto sociale.
Gli Ermellini hanno inoltre precisato che nel valutare la situazione occorre tener conto delle esigenze, del sesso e della residenza dei figli: la figlia femminina nata e crescita al sud ha molte più difficoltà a trovare lavoro di un figlio maschio.

Inoltre, in materia di onere della prova, il padre che chiede la revoca del mantenimento deve provare le motivazioni del perché non è più dovuto - prova nel caso specifico non raggiunta dal padre.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione cassava con rinvio alla Corte di Appello di Catania per il riesame della questione.

Voi cosa ne pensate? Ha ragione la Cassazione a richiamare l’attenzione dei giudici al sesso e al luogo di residenza dei figli?

Sul blog approfondisce la decisone la Dott.ssa Elisa Cazzaniga.

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La Corte di Cassazione con la decisione n. 12121/2025 ha affermato che “il genitore separato è tenuto a versare l’assegno al figlio ventenne, a maggior ragione se è una ragazza, se vivono al sud, dove le opportunità di lavoro sono più basse”.

La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Ragusa che, nel pronunciare la separazione personale dei coniugi, ha revocato l’assegno di mantenimento in favore della figlia, originariamente concesso in via provvisoria, poiché nel frattempo era divenuta maggiorenne. 

Anche la Corte di Appello di Catania aveva confermato la revoca poiché la ragazza ormai ventenne non aveva provato di essere impegnata a studiare o a lavorare.

La madre adiva quindi la Cassazione che, invece, accogliendone  il ricorso, ribadiva in modo molto approfondito che la legge, in punto diritto al mantenimento, non distingue tra figli minorenni e maggiorenni e che l’onere dei genitori non cessa automaticamente con il compimento dei 18 anni. Ciò che conta, ha ribadito la Corte è il raggiungimento dell’indipendenza economica da valutarsi con riferimento all’età, all’impegno nello studio o nel lavoro e al contesto sociale. 
Gli Ermellini hanno inoltre precisato che nel valutare la situazione occorre tener conto delle esigenze, del sesso e della residenza dei figli: la figlia femminina nata e crescita al sud ha molte più difficoltà a trovare lavoro di un figlio maschio.

Inoltre, in materia di onere della prova, il padre che chiede la revoca del mantenimento deve provare le motivazioni del perché non è più dovuto - prova nel caso specifico non raggiunta dal padre. 

Per tali ragioni la Corte di Cassazione cassava con rinvio alla Corte di Appello di Catania per il riesame della questione.

Voi cosa ne pensate? Ha ragione la Cassazione a richiamare l’attenzione dei giudici al sesso e al luogo di residenza dei figli? 

Sul blog approfondisce la decisone la Dott.ssa Elisa Cazzaniga.

Il Tribunale di Modena, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, successivamente, condannavano un ragazzo per il reato di indebito utilizzo di carta di credito, previsto dall’art. 493-ter c.p..

L’imputato presentava ricorso per cassazione sostenendo la non punibilità tra congiunti, prevista dall’art. 649 c.p.: l’indebito utilizzo della carta del padre avrebbe leso solo il patrimonio della persona offesa, senza coinvolgere beni giuridici ulteriori.
Invocava, poi, la scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), sostenendo che fosse abitualmente autorizzato all’uso della carta di credito paterna. Infine, il ricorrente lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., rilevando che il danno arrecato ammontava a soli 30 euro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure (Cass. 7651/25).

In particolare, con riferimento all’art. 649 c.p., secondo la Cassazione il reato di indebito utilizzo di carta di pagamento ha natura plurioffensiva: non si lede solo il patrimonio del titolare della carta, ma anche l’affidabilità e la sicurezza delle transazioni economiche.

Per quanto riguarda la scriminante del consenso, il fatto che l’imputato fosse in possesso della carta e del relativo codice non dimostrava la sussistenza di un consenso attuale del padre al suo utilizzo. Anzi, è stato evidenziato che il figlio aveva utilizzato la carta per prelevare denaro per acquistare sostanze stupefacenti: il consenso del titolare della carta non può estendersi a finalità illecite.

Infine, la Corte ha evidenziato che la valutazione della particolare tenuità del fatto non può basarsi solo sull’entità del danno, ma deve tenere conto anche delle modalità della condotta: l’imputato aveva utilizzato la carta di credito per acquistare droga e, al momento del prelievo, si trovava in stato di detenzione domiciliare.

Cosa pensate di questa decisione? Scrivetelo nei commenti!

Post scritto da @avvcrespi

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Il Tribunale di Modena, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, successivamente, condannavano un ragazzo per il reato di indebito utilizzo di carta di credito, previsto dall’art. 493-ter c.p..
 
L’imputato presentava ricorso per cassazione sostenendo la non punibilità tra congiunti, prevista dall’art. 649 c.p.: l’indebito utilizzo della carta del padre avrebbe leso solo il patrimonio della persona offesa, senza coinvolgere beni giuridici ulteriori.
Invocava, poi, la scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), sostenendo che fosse abitualmente autorizzato all’uso della carta di credito paterna. Infine, il ricorrente lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., rilevando che il danno arrecato ammontava a soli 30 euro.
 
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure (Cass. 7651/25).
 
In particolare, con riferimento all’art. 649 c.p., secondo la Cassazione il reato di indebito utilizzo di carta di pagamento ha natura plurioffensiva: non si lede solo il patrimonio del titolare della carta, ma anche l’affidabilità e la sicurezza delle transazioni economiche.
 
Per quanto riguarda la scriminante del consenso, il fatto che l’imputato fosse in possesso della carta e del relativo codice non dimostrava la sussistenza di un consenso attuale del padre al suo utilizzo. Anzi, è stato evidenziato che il figlio aveva utilizzato la carta per prelevare denaro per acquistare sostanze stupefacenti: il consenso del titolare della carta non può estendersi a finalità illecite.
 
Infine, la Corte ha evidenziato che la valutazione della particolare tenuità del fatto non può basarsi solo sull’entità del danno, ma deve tenere conto anche delle modalità della condotta: l’imputato aveva utilizzato la carta di credito per acquistare droga e, al momento del prelievo, si trovava in stato di detenzione domiciliare.
 
Cosa pensate di questa decisione? Scrivetelo nei commenti!
 
Post scritto da @avvcrespi

Sul conto cointestato sul quale confluisce solo lo stipendio del marito può prelevare senza limiti la moglie anche se non lavora, e se i prelievi servono per mantenere la famiglia può prelevare anche oltre il 50% dell’importo totale.

Il caso: dopo diversi anni di matrimonio nel corso del quale nascevano ben sette figli, una donna dedita esclusivamente alla famiglia decideva di porre fine all’unione a causa delle ripetute violenze subite.

Durante la trattativa l’uomo si allontanava da casa pur sapendo di essere l’unico a lavorare e per mesi interrompeva di versare il necessario per mantenere la famiglia, con l’idea di giungere velocemente ad un accordo.

La donna però bonificava in più riprese delle somme dal conto corrente cointestato per un totale di €42.000 (su €70,0.000 iniziali) al proprio conto e così provvedeva alla famiglia e agiva in giudizio per la separazione chiedendo l’addebito.

Ritenendo fossero solo suoi i soldi sul conto, l’uomo accusava la moglie di averlo “derubato” e agiva in Tribunale chiedendo la restituzione dei soldi prelevati e la condanna della moglie per non aver acconsentito a portare avanti le trattative!

Ma il Tribunale di Milano non ha dubbi: con la sentenza n. 3810 pubblicata il 10 maggio 2025, ha respinto le domande dell’uomo chiarendo che la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità delle somme giacenti sul conto salva la prova contraria e che le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell`obbligo di contribuzione di cui all`art. 143 c.c., che nella fattispecie traggono provvista in un conto cointestato, non determinano alcun diritto al rimborso.

Ogni coniuge, infatti, contribuisce alla vita familiare in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro anche domestico . Ne consegue che la maggiore contribuzione in termini di denaro di uno dei coniugi alle spese familiari può essere coerente con la circostanza che - per scelta dei coniugi - la moglie non lavori perché dedicata alle incombenze domestiche ed alla cura dei numerosi figli.

L’uomo veniva quindi condannato alle spese di lite!

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Sul conto cointestato sul quale confluisce solo lo stipendio del marito può prelevare senza limiti la moglie anche se non lavora, e se i prelievi servono per mantenere la famiglia può prelevare anche oltre il 50% dell’importo totale.

Il caso: dopo diversi anni di matrimonio nel corso del quale nascevano ben sette figli, una donna dedita esclusivamente alla famiglia decideva di porre fine all’unione a causa delle ripetute violenze subite.

Durante la trattativa l’uomo si allontanava da casa pur sapendo di essere l’unico a  lavorare e per mesi interrompeva di versare il necessario per mantenere la famiglia, con l’idea di giungere velocemente ad un accordo.

La donna però bonificava in più riprese delle somme dal conto corrente cointestato per un totale di €42.000 (su €70,0.000 iniziali) al proprio conto e così provvedeva alla famiglia e agiva in giudizio per la separazione chiedendo l’addebito.

Ritenendo fossero solo suoi i soldi sul conto, l’uomo accusava la moglie di averlo “derubato” e agiva in Tribunale chiedendo la restituzione dei soldi prelevati e la condanna della moglie per non aver acconsentito a portare avanti le trattative!

Ma il Tribunale di Milano non ha dubbi: con la sentenza n. 3810 pubblicata il 10 maggio 2025, ha respinto le domande dell’uomo chiarendo che la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità delle somme giacenti sul conto salva la prova contraria e che le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c., che nella fattispecie traggono provvista in un conto cointestato, non determinano alcun diritto al rimborso.

Ogni coniuge, infatti, contribuisce alla vita familiare in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro anche domestico . Ne consegue che la maggiore contribuzione in termini di denaro di uno dei coniugi alle spese familiari può essere coerente con la circostanza che - per scelta dei coniugi - la moglie non lavori perché dedicata alle incombenze domestiche ed alla cura dei numerosi figli.

L’uomo veniva quindi condannato alle spese di lite!

La presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata; tale presunzione è infatti superata se al momento della registrazione della nascita la madre dichiari il figlio come naturale.

Ne consegue che la donna, in caso di mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, può intraprendere l`azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito senza che sia necessario il disconoscimento da parte del marito, ai sensi dell`art. 235 c.c.

Il caso: in costanza di matrimonio una donna siciliana intratteneva una relazione extraconiugale e rimaneva incinta. Al momento della nascita della figlia la donna - sicura che la bimba non fosse del marito - la dichiarava al Comune di Modica come figlia naturale e le attribuiva il proprio cognome.

A fronte del diniego al riconoscimento da parte del padre biologico, la donna iniziava l’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità.

Il padre biologico eccepiva la necessità di procedere prima con il disconoscimento della paternità del marito vista l’operatività della presunzione in costanza di matrimonio.

Ma Il Tribunale di Ragusa, dichiarava la minore figlia del padre naturale con conseguente obbligo di mantenimento e il rimborso delle spese per il periodo dalla nascita alla notifica della citazione. Visto il comportamento paterno, affidava la bimba in via esclusiva alla madre, e viste alla di lei presenza.

L’uomo non accettava la decisione e depositava appello che però veniva rigettato e ricorso in Cassazione ma gli Ermellini dichiaravano il ricorso inammissibile.

La minore, infatti, seppur nata in costanza di matrimonio, non era stata denunciata dalla madre come figlia del marito, così disattendendosi la presunzione di paternità tanto è vero che la bambina aveva assunto il cognome materno.

La non operatività della presunzione di cui all`art. 232 c.c., di concepimento
nell`ambito del matrimonio già deriva dall`avere il bambino assunto il cognome
della madre (art.262 c.c.).

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La presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata; tale presunzione è infatti superata se al momento della registrazione della nascita la madre dichiari il figlio come naturale.

Ne consegue che la donna, in caso di mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, può intraprendere l'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito senza che sia necessario il disconoscimento da parte del marito,  ai sensi dell'art. 235 c.c.

Il caso: in costanza di matrimonio una donna siciliana intratteneva una relazione extraconiugale e rimaneva incinta. Al momento della nascita della figlia la donna - sicura che la bimba non fosse del marito - la dichiarava al Comune di Modica come figlia naturale e le attribuiva il proprio cognome. 

A fronte del diniego al riconoscimento da parte del padre biologico, la donna iniziava l’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità.

Il padre biologico eccepiva la necessità di procedere prima con il disconoscimento della paternità del marito vista l’operatività della presunzione in costanza di matrimonio.

Ma Il Tribunale di Ragusa, dichiarava la minore figlia del padre naturale con conseguente obbligo di mantenimento e il rimborso delle spese per il periodo dalla nascita alla notifica della citazione. Visto il comportamento paterno, affidava la bimba in via esclusiva alla madre, e viste alla di lei presenza.

L’uomo non accettava la decisione e depositava appello che però veniva rigettato e ricorso in Cassazione ma gli Ermellini dichiaravano il ricorso inammissibile.

La minore, infatti, seppur nata in costanza di matrimonio, non era stata denunciata dalla madre come figlia del marito, così disattendendosi la presunzione di paternità tanto è vero che la bambina aveva assunto il cognome materno.

La non operatività della presunzione di cui all'art. 232 c.c., di concepimento
nell'ambito del matrimonio già deriva dall'avere il bambino assunto il cognome
della madre (art.262 c.c.).
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