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L’Italia è ancora inadeguata nel tutelare le donne che subiscono e denunciano la violenza domestica

(A cura dell’Avv. Alice Di Lallo)

Lo scorso 7 aprile 2022, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sentenza Landi contro Italia, ha nuovamente ritenuto inadeguata la tutela che l’Italia appresta alle donne vittime di violenza, condannando, così, ancora il nostro Paese per la violazione dell’art. 2 della Convenzione per non avere le autorità italiane adottato quelle misure adeguate a prevenire la violazione del diritto alla vita della ricorrente e del figlio minore, ucciso dal padre ad esito dell’ennesima aggressione violenta.

La donna conviveva col compagno da cui aveva avuto due figli, il primo nato nel 2011 e il secondo nel 2017. Quando il primo figlio aveva 4 anni, la donna sporgeva la prima denuncia dopo aver subito un’aggressione da parte del compagno. Veniva così avviato nei confronti dell’uomo un procedimento per maltrattamenti senza, però, che nei quattro mesi successivi venissero disposte altre indagini, né venisse ordinata l’adozione di alcuna misura precauzionale, non essendo stata richiesta al giudice dal PM. La denuncia veniva dalla donna ritirata e il Pubblico Ministero chiedeva l’archiviazione del procedimento. Seguirono così altre denunce e altri interventi dei Carabinieri chiamati dalla donna nel corso di altre aggressioni subite. Durante un intervento delle Forze dell’Ordine, l’uomo aveva anche cercato di rubare la pistola di un carabiniere e veniva così ricoverato in psichiatria in Ospedale. In tale occasione i medici confermavano che erano emersi diversi episodi di maltrattamento e violenza domestica. I Carabinieri chiedevano al pubblico ministero di valutare la necessità di disporre di una misura detentiva nei confronti del maltrattante per proteggere la donna e i bambini; veniva così aperto un procedimento per il reato di maltrattamenti in famiglia. L’uomo, dimesso dall’Ospedale, dopo un periodo presso i propri genitori, rientrava nella casa familiare ma nessuna misura preventiva veniva adottata dalle autorità. Nel settembre 2018, prima di cena, a seguito del rumore causato dal figlio e da una telefonata ricevuta dalla donna, l’uomo impugnava un coltello e uccideva uno dei figli, ferendo gravemente la donna e l’altro figlio. L’uomo veniva condannato a venti anni di reclusione per omicidio, tentato omicidio e per maltrattamenti.

La donna si rivolgeva, così, alla Corte Europea dei diritti umani per la violazione da parte dell’Italia dell’art. 2 della CEDU, che tutela il diritto alla vita, per non aver adempiuto agli obblighi positivi, non avendo le autorità preposte adottato tutte le misure necessarie per la protezione della sua vita e di quella di suo figlio e per non essere stati capaci di condurre un’indagine efficace a seguito delle denunce sporte.

I giudici di Strasburgo, citando il caso Osman contro Regno Unito, affermano che se le autorità sono a conoscenza, o avrebbero dovuto esserlo, del fatto che esiste un rischio reale e immediato alla vita di un particolare individuo in ragione degli atti criminali di un terzo, esse devono applicare, nell’ambito dei loro poteri, tutte le misure che possono essere ragionevolmente adottate per evitare quel rischio.

Nel caso di specie, se i Carabinieri avevano agito immediatamente, il Pubblico Ministero era rimasto inattivo. E ancora, il Pubblico Ministero avrebbe ben potuto continuare ad esercitare l’azione penale nonostante il ritiro della denuncia della donna, o perlomeno svolgere un’indagine approfondita prima di disporne l’archiviazione.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che le autorità italiane non hanno adottato la dovuta diligenza, avendo omesso di applicare qualsivoglia misura di protezione a loro disposizione per prevenire l’accaduto, come il coinvolgimento dei servizi sociali e degli psicologi o il collocamento dei bambini e della ricorrente in un centro antiviolenza, sussistendo, pertanto, la violazione dell’Art. 2 CEDU, non avendo tutelato la vita della ricorrente e quella di suo figlio. L’Italia è stata così condannata al risarcimento per i danni morali riconosciuti in Euro 32.000,00.

Si ricorda, a tal proposito, la condanna che l’Italia ha subito nel caso Talpis, nel marzo 2017, per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti nonché del divieto di discriminazione in quanto le autorità italiane non erano intervenute tempestivamente per proteggere la signora Talpis e i suoi figli vittime di violenza domestica perpetrata dal marito, avallando di fatto tali condotte violente protrattesi fino al tentato omicidio della ricorrente e all’omicidio di suo figlio da parte del coniuge.

In particolare, la donna aveva una prima volta chiamato la polizia riferendo di esser stata aggredita dal marito ma non sporgeva denuncia.

Neanche due mesi dopo, nuovamente il marito aggrediva la moglie minacciandola con un coltello, contatta un Centro anti violenza e sporge denuncia richiedendo anche l’applicazione di una misura cautelare volta a prevenire la reiterazione di altri comportamenti violenti.

Cinque mesi dopo, il Pubblico Ministero sollecita la Polizia Giudiziaria che solo in tale occasione trasmetteva i verbali di sommarie informazioni nel quale la signora ritrattava il contenuto della denuncia. Pertanto, il PM formulava richiesta di archiviazione.

Poco dopo, il marito nuovamente aggrediva la moglie la quale chiedeva l’intervento dei Carabinieri ai quali riferiva solo che il marito era ubriaco. Il marito veniva portato in ospedale ma in seguito se ne allontanava, rientrava in casa accoltellava a morte il figlio e feriva gravemente la moglie.

Il marito verrà condannato alla pena dell’ergastolo per l’omicidio del figlio e tentato omicidio della moglie e per i maltrattamenti.

La CEDU condanna l’Italia per non avere adempiuto all’obbligo positivo di adottare misure preventive per proteggere l’individuo la cui vita sia minacciata. Il decorso di tale lasso di tempo aveva privato la signora Talpis della protezione immediata che la situazione richiedeva.

Lo Stato, non avendo agito con rapidità dopo il deposito della denuncia, aveva privato di efficacia tale denuncia.

Author Profile

Da sempre interessata alla tematica dei diritti umani e delle persone, dopo un’esperienza presso la Prefettura di Milano – Sportello Unico dell’Immigrazione, ha iniziato la pratica forense nello Studio Legale Di Nella dove, nell’ottobre 2014, è diventata Avvocato, del Foro di Milano. Si occupa di diritto civile, in prevalenza di diritto di famiglia, italiano e transnazionale, delle persone e dei minori, e di diritto dell’immigrazione.

Dal 2011 collabora con la rivista giuridica on line Diritto&Giustizia, Editore Giuffrè, su cui pubblica note a sentenza in tema di diritto di famiglia e successioni e dal 2018 pubblica note a sentenza anche sul portale online ilfamiliarista.it, Editore Giuffrè.

È socia dell’AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori). Svolge docenze nei corsi di formazione e approfondimento per ordini e associazioni professionali ed enti privati, partecipando anche a progetti scolastici su temi sociali e civili.