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L’incubo americano. Con l’abolizione del diritto all’aborto viene tolta alle donne la libertà di scegliere.

(A cura dell’Avv. Alice Di Lallo)

Tutti abbiamo appreso con sgomento la decisione che i nove giudici della Corte Suprema Americana hanno reso in materia di diritti fondamentali, vietando l’aborto e ribaltando il precedente del 1973 Roe vs Wade che aveva sancito 50 anni fa, negli Stati Uniti d’America, il diritto della donna di scegliere di interrompere la gravidanza creando così un divieto a livello federale.

Ma andiamo con ordine.

Nel paesi di Common Law, come appunto il sistema americano (diverso dal nostro, che si basa sul Civil Law), il giudice è obbligato a conformarsi alle decisioni adottate nelle sentenze (i “precedenti”) nel caso in cui debba decidere su una questione identica già trattata. I precedenti, individuati con il nome delle parti del caso, sono, dunque, fonti normative che vincolano i giudici nelle decisioni successive a meno che non subiscano il c.d. “over-ruling”, il disconoscimento del precedente che viene sostituito con una nuova decisione.

I giudici della Corte Suprema, con sei voti contro tre, hanno disconosciuto il precedente Roe vs Wade de-federalizzando il diritto all’aborto, delegando i singoli 50 Stati americani a decidere in modo più o meno restrittivo (o anche abolitivo) sull’aborto e sulla libera scelta delle donne di portare a termine una gravidanza.

La decisione – adottata dalla Corte Suprema attualmente composta da giudici a maggioranza conservatrice, sei conservatori (di cui una donna), nominati da Bush e da Trump e tre liberali (di cui due donne) nominati da Clinton e Obama – è stata resa sul caso «Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization», in cui si dibatteva della costituzionalità di una legge del Mississippi del 2018 che vieta l’aborto dopo le prime 15 settimane di gravidanza, salvi i casi straordinari. Giunto il caso alla Suprema Corte, dando ragione al Mississippi, i giudici ribaltavano la decisione Roe vs. Wade che, al contrario, aveva riconosciuto il diritto costituzionale all’aborto.

In particolare, nel 1973 la Suprema Corte, sul caso di una donna sposata a 16 anni con un uomo violento dal quale aveva avuto due figli, che voleva interrompere la terza gravidanza, riconosceva il diritto di quella donna di scegliere sul proprio corpo e sulla propria vita con tutela costituzionale dell’aborto a livello, dunque, centrale e federale. L’allora Giudice Ginsburg affermava però che le motivazioni sulla base tale importante decisione fosse stata resa dalla Corte la rendeva debole e attaccabile, basandosi la stessa sul diritto alla privacy quale diritto alla libera scelta nella sfera intima, ai sensi del quattordicesimo emendamento. Secondo la Ginsburg, tale decisione avrebbe dovuto basarsi sull’Equal protection cause, sull’uguaglianza di genere e sulla parità di trattamento tra uomini e donne.

Ma già dopo quella sentenza, i movimenti c.d. “anti-choice” (contrari alla libertà delle donne di scegliere se proseguire o interrompere una gravidanza) hanno iniziato a lavorare per contrastare tale precedente, da ultimo Trump nel 2018 e nel 2020 ha nominato due nuovi giudici della Corte Suprema noti entrambi per le loro posizioni “anti-choice”.

I movimenti “anti choice” hanno anche agito attraverso la promulgazione di norme che richiedono alle cliniche che praticano l’aborto dei requisiti così stringenti (che spesso nulla hanno a che fare con la salute delle donne) che rende davvero difficile per una donna in America, in certi Stati, accedere alla interruzione volontaria di gravidanza, pratica ad esempio non inclusa nei servizi coperti dal Medicaid per cui le persone a basso reddito non possono accedervi (si pensi all’Alabama).

Da adesso in poi, dunque, il diritto di portare a termine la gravidanza dipende dallo Stato – liberale o conservatore – in cui la donna vive e dalle condizioni economiche delle donne che scelgono di abortire. È evidente che negli Stati in cui verrà vietato l’aborto o fortemente limitato, le categorie vulnerabili di donne prive delle risorse necessarie non potranno che soccombere rispetto alla loro scelta di abortire ovvero percorrere strade alternative, clandestine ed illegali, con grave rischio per la propria salute e per la propria vita, diversamente chi se lo potrà permettere economicamente e socialmente – come sempre è – riuscirà, tramite il turismo abortivo, a trasferirsi in altri Stati, come lo Stato di New York che ha dichiarato voler essere lo stato della libertà.

Già dopo la pubblicazione della sentenza venerdì 24 giugno 2022, nove Stati americani, a guida repubblicana, hanno immediatamente vietato l’aborto nella gran parte dei casi.

È evidente che la decisione della Suprema Corte sia una decisione prettamente politica contro il diritto della donna di scegliere del proprio corpo e della propria vita che non ha minimamente operato un bilanciamento di interessi contrapposti (il diritto di autodeterminazione della donna, il diritto alla vita, il diritto alla salute della donna e del feto).

Questa decisione ha alimentato il dibattito anche in Italia, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è regolamentata dalla legge 194/1978 (stessi anni del precedente americano Rue ws. Wade). La legge 194, in tema di aborto, distingue le ivg praticate entro o dopo i 90 giorni di gestazione, facendo prevalere il diritto di scelta della donna nel primo caso e il diritto alla vita di un feto già formato nel secondo caso, prevendo qui l’aborto in casi gravi ed eccezionali.

Infatti, per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, si richiede che la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata soltanto in due ipotesi: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Sono noti, purtroppo, anche in Italia gli ostacoli che le donne incontrano nell’accedere a tale intervento medico, a causa della alta percentuale di obiettori di coscienza soprattutto in alcune parti del Paese.

Ai sensi dell’art. 117 Cost., le singole Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione ed organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere.

Ciò ha consentito alla regione Umbria, ad esempio, di imporre alle donne che facciano richiesta della pillola abortiva RU486 un ricovero ospedaliero di tre giorni così impedendo il riserbo nella decisione e la tutela delle donne più giovani o in situazioni di degrado o violenza.

Deve essere ben chiaro che vietare l’aborto non significa eliminare l’interruzione volontaria di gravidanza ma significa aprire la strada a pratiche illegali, clandestine, ove la salute e la vita stessa delle donne è a rischio.

Consentire l’aborto – anche in modo differenziato a seconda dei mesi di gestazione, come la nostra 194 – significa accompagnare e assistere in modo sicuro le donne che scelgono, per i più svariati motivi, di non diventare madri. E la scelta di non diventare madri deve essere tutelata e rispettata al pari di quella di diventarlo.

Author Profile

Da sempre interessata alla tematica dei diritti umani e delle persone, dopo un’esperienza presso la Prefettura di Milano – Sportello Unico dell’Immigrazione, ha iniziato la pratica forense nello Studio Legale Di Nella dove, nell’ottobre 2014, è diventata Avvocato, del Foro di Milano. Si occupa di diritto civile, in prevalenza di diritto di famiglia, italiano e transnazionale, delle persone e dei minori, e di diritto dell’immigrazione.

Dal 2011 collabora con la rivista giuridica on line Diritto&Giustizia, Editore Giuffrè, su cui pubblica note a sentenza in tema di diritto di famiglia e successioni e dal 2018 pubblica note a sentenza anche sul portale online ilfamiliarista.it, Editore Giuffrè.

È socia dell’AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori). Svolge docenze nei corsi di formazione e approfondimento per ordini e associazioni professionali ed enti privati, partecipando anche a progetti scolastici su temi sociali e civili.