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L’attendibilità della persona offesa nei processi per maltrattamenti in famiglia

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

Il reato di maltrattamenti in famiglia si consuma generalmente tra le mura domestiche, senza testimoni. Assumono, dunque, una particolare importanza le dichiarazioni della parte offesa.

Ciò vale anche con riferimento ai reati sessuali, per il cui accertamento occorre svolgere un’attenta valutazione delle opposte versioni fornite dall’imputato e dalla parte offesa, unici protagonisti dei fatti.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia ha quali presupposti una relazione tra agente e vittima, caratterizzata da stabilità, e la lesione della dignità della persona offesa.

Tale lesione avviene attraverso varie condotte, come vessazioni, umiliazioni, insulti, aggressioni, intimidazioni, percosse, che creano una situazione di assoggettamento della vittima.

Il reato viene riconosciuto anche al di fuori della famiglia legittima ed in presenza di un rapporto di stabile convivenza, idoneo per determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza. Oltretutto non è richiesta una convivenza di lunga durata.

Le dichiarazioni di una vittima di maltrattamenti in famiglia non possono essere poste a fondamento dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, qualora – da un’analisi precedentemente effettuata – risulti inficiata la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca del suo racconto (Cass., n. 52999/18).

Ad esempio  potrebbero essere considerate non credibili le persone offese, qualora, in situazioni caratterizzate da una forte conflittualità, sussista un profondo astio ed uno spirito di rivalsa delle stesse.

Quando, invece, la testimonianza è giudicata intrinsecamente attendibile, viene riconosciuta alla medesima la natura di vera e propria fonte di prova, ammettendo che sulla stessa, anche esclusivamente, possa essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata (Cass. n. 2911/21).

La Suprema Corte ha richiamato in proposito quanto sostenuto in passato dalle Sezioni Unite sull’inapplicabilità delle regole fissate dall’art. 192, comma 3 c.p.p. alle dichiarazioni della persona offesa: queste possono essere da sole legittimamente poste a fondamento di una pronuncia di condanna “sottoponendo a preventiva e motivata verifica la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca del narrato, che deve tuttavia effettuarsi in modo più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, aggiungendo che, in caso di costituzione di parte civile della persona offesa, può essere opportuno procedere anche al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi” (Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte).

Secondo le Sezioni Unite costituisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo la quale la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta “una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità …”.

Per quanto concerne la motivazione, è necessario che il Giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo in tal modo la ricostruzione  dell’iter logico-giuridico seguito.

Infine, la Cassazione ha sottolineato come – nel caso in cui risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci – questi possano consistere in “qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione”.

Pertanto, non è necessario che ogni singolo episodio riferito
dalla persona offesa sia assistito da riscontri esterni e gli elementi di
confronto che il giudice può opportunamente considerare attengono ai profili della credibilità soggettiva
del teste.

Recentemente la Cassazione (con sentenza  n. 2102 del 30 maggio 2022) ha ripreso le argomentazioni della sentenza Bell’Arte delle  Sezioni Unite, ribadendo che alle dichiarazioni della persona offesa non si applicano le
regole fissate dall’art. 192 c.p.p., comma 3 e che esse possono essere legittimamente poste da sole a
fondamento dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.

La Corte ha precisato che occorre imporre un vaglio rinforzato dell’attendibilità della vittima (“testimone portatore di un astratto interesse a rilasciare dichiarazioni etero accusatorie”). Qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri
estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio
del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto.

Nel caso sottoposto agli Ermellini i Giudici di merito hanno definito attendibile la persona offesa, poiché le sue dichiarazioni erano prive di profili interni di incongruità, contraddizione o inverosimiglianza; inoltre erano sempre state coerentemente riportate in varie occasioni, durante le quali la donna non aveva
mai manifestato animosità o risentimento nei confronti del compagno, del quale aveva anche
riconosciuto alcune qualità personali, come l’attaccamento al figlio più piccolo.

Infine, pare opportuno analizzare una recente pronuncia della Suprema Corte, in base alla quale le dichiarazioni della persona offesa non perdono credibilità se essa denuncia, dopo la separazione, reiterati maltrattamenti subiti durante la convivenza coniugale (Cass., n. 7885/2022).

Il trascorrere del tempo non è così determinante e potrebbe essere legato al fatto che la donna, avendo un nuovo compagno, poteva aver trovato la forza di denunciare, oltretutto in modo coerente e con dovizia di particolari.

La Corte ha, altresì, sottolineato come siano ininfluenti le testimonianze di persone che, frequentando la coppia, affermino di non aver mai assistito a litigi o a comportamenti vessatori: il reato viene commesso tra le mura domestiche, consentendo al reo di esercitare un controllo sulla vittima, spesso trattata come oggetto di sua proprietà o potere assoluto, originato da gelosia.

Author Profile
Avv. Stefania Crespi

Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.