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Mediazione familiare: il linguaggio per uscire dalla crisi

(A cura della Dott.ssa Giulia Meneghelli)

Quando il mediatore incontra per la prima volta le parti in lite, ognuna ha una storia da raccontare: la propria versione degli eventi, nonché la “definizione personale” del problema. 

Il fatto che i mediandi risultino incapaci di accordarsi sui contenuti della controversia, infatti, significa che il ruolo del mediatore familiare è prima di tutto quello di aiutarli a formulare nuove definizioni condivise del problema: solo una volta che ne sarà stata data una definizione congiunta (e quindi il problema sarà diventato davvero “comune”) potrà avere inizio la sua risoluzione.

Per realizzare il suo compito, il mediatore familiare ricorre a precise tecniche di base, che saranno di ausilio alle parti per la composizione della lite e la successiva negoziazione di un accordo accettabile per entrambi.

Ma vediamo nello specifico di cosa si tratta, analizzando gli strumenti comunicativi più frequentemente utilizzati.

Il mediatore deve innanzitutto cercare di capire che persone siano i suoi clienti, ponendosi in una posizione di ascolto e di accoglienza. Nel momento in cui avrà individuato e compreso i bisogni, le paure e le preoccupazioni di ciascun partecipante, ecco che il professionista sarà in grado di aiutarli a esplorare insieme una o più opzioni idonee a risolvere il problema.

Verrà dunque vagliata la possibilità di soluzioni alternative a quella unilaterale e stereotipata, superando i filtri cognitivi di ciascuno dei due mediandi. Mettendo da parte, in altre parole, la loro personale percezione della realtà: frutto delle attitudini individuali, della cultura di appartenenza, delle tradizioni di famiglia, degli schemi percettivi e dei propri valori.

Pertanto, la prima tecnica messa in campo dal mediatore è quella della riformulazione, vale a dire la ripetizione di quanto riferito dai mediandi, in modo tale che il professionista possa accertarsi della corretta comprensione dei fatti e, al contempo, dimostrarsi agli occhi delle parti intenzionato a capirle.

Spesso la coppia si presenta in mediazione dipingendo il proprio problema come eccezionale, o comunque sufficientemente unico da giustificare un intervento esterno super partes. Ove possibile, quindi, il mediatore ha l’arduo compito di minare l’unicità di ogni definizione del problema, normalizzando la situazione e principalmente gli stati d’animo dei protagonisti. Per far questo, egli dovrà “ricondurre” quanto gli è stato esposto a un contesto percepito anche dai mediandi come già verificatosi nel tempo, ad altre persone coinvolte nella medesima dinamica.

Questo scarto di approccio è fondamentale: se il problema è “normale”, significa che può essere risolvibile.

E ancora. Il più delle volte la persona in lite si arrocca nella propria posizione, tralasciando di considerare il punto di vista dell’interlocutore: le ragioni dell’altro non interessano chi è assorbito dal conflitto.

Ecco allora che la strategia della reciprocizzazione mette in discussione le certezze delle rispettive posizioni iniziali. Insinuato il dubbio, il mediatore – restando equiprossimo alle parti – avrà modo di rinsaldare i cambiamenti mantenendo nella discussione un punto di convergenza incentrato sul futuro.

È proprio sul futuro, del resto, che deve focalizzarsi il processo di mediazione. 

Le parti si presentano davanti al professionista desiderose di parlare delle vicende del passato, con la convinzione che solo rivangandolo sia possibile risalire all’origine del problema, e quindi risolverlo.

Ma qualsiasi discussione di questo tipo scaraventa inevitabilmente il mediatore in un campo, e in una veste, che non gli competono: spetta a un giudice stabilire chi ha avuto torto e chi ragione nel passato, così come è compito eventualmente di un terapeuta far luce sui motivi della sofferenza di ciascuno, analizzando fatti ed eventi verificatisi in precedenza.

In altre parole, il mediatore è quella figura che deve sì conoscere le dinamiche delle emozioni, ma in un’ottica di controllo e superamento del conflitto. Ecco perché ai mediandi è richiesto di parlare del presente e delle aspirazioni future: la soluzione, nonché la speranza, sono davanti e non alle spalle.

Durante la seduta, il mediatore procede poi con l’uso del reframing: il processo di sintesi che interpreta i contenuti illustrati dalle parti, esplicitandone le aspettative. Tale operazione però non consiste nel riassumere tutto quello che i clienti decidono di riferire: starà infatti al mediatore mettere in risalto gli aspetti più salienti, facendoli divenire importanti anche agli occhi dei partecipanti.

Più nello specifico, questa tecnica consente allo specialista di mantenere il controllo sulle dinamiche conflittuali e comprendere a fondo quanto gli è appena stato espresso. Sottraendosi nel contempo a qualsiasi tentativo delle parti di indurlo ad assumere un atteggiamento diagnostico e giudicante.

Vediamo così come la professionalità del mediatore si traduce nell’ascoltare e decodificare il continuo scambio interlocutorio tra i soggetti coinvolti, così che la coppia si veda riconosciuta nei propri e rispettivi bisogni. Quelli che prenderanno poi forma nel possibile accordo futuro.

Parlare è un bisogno, ascoltare è unarte”.

Johann Wolfgang von Goethe

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