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Le foto dell’investigatore privato sono prova valida per dimostrare l’infedeltà coniugale

(A cura dell’Avv. Maria Zaccara )

La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 4038/2024 pubblicata in data 14 febbraio 2024 ha confermato che le foto dell’investigatore privato costituiscono una valida prova per dimostrare l’infedeltà coniugale.

 Il procedimento portato all’attenzione dei giudici di legittimità trae origine dalla sentenza di separazione del Tribunale di Trani che, in accoglimento della domanda formulata dal marito, addebitava la separazione alla moglie a causa del di lei tradimento, documentato dalla relazione e dalle fotografie di un investigatore privato.

La moglie proponeva ricorso in Appello ma i Giudici di merito confermavano la pronuncia di addebito.

La moglie, allora, adiva il terzo grado di giudizio.

Per quanto oggi di interesse, la moglie lamentava che i Giudici di secondo grado avevano ritenuto provata l’asserita violazione dell’obbligo di fedeltà da parte della stessa attribuendo, del tutto illegittimamente, rilevanza probatoria alle relazioni investigative prodotte dal marito.

La ricorrente in particolare, assumeva che le relazioni investigative costituirebbero prova solo a condizione che l’investigatore venga escusso nel contradditorio tra le parti, ed invece, nel caso di specie, l’investigatore non era mai stato sentito come teste nel corso del giudizio, pertanto, alcuna valenza probatoria poteva ascriversi alle relazioni investigative.

In aggiunta, la ricorrente lamentava che la motivazione della sentenza impugnata non era congrua, perché il Giudice di secondo grado, si sarebbe limitato ad affermare che “ove anche lo scritto anonimo e le relazioni investigative prodotte dall’uomo non assurgessero al ruolo di prova, stanti contrapposti orientamenti giurisprudenziali per cui talora sono reputate prove atipiche, talaltra presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. ovvero meri argomenti di prova, e nelle più recenti sentenze della Cassazione, prove a tutti gli effetti (purché l’investigatore venga escusso nel contraddittorio fra le parti e dettagli gli episodi riportati in perizia), il Tribunale di Trani ha adottato una parabola motivazionale logica e ricettiva della circolarità di tutti gli elementi emersi nel corso della corposa istruttoria espletata in quel grado di giudizio”, senza soffermarsi, tuttavia, su detti elementi.

Tale motivazione costituirebbe un’ipotesi di motivazione per relationem, ritenuta inammissibile.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile tali motivi.

Gli Ermellini ritengono che la censura in esame investe non un fatto inteso in senso storico e avente valenza decisiva, ma elementi probatori suscettibili di valutazione, come appunto la relazione investigativa, rientrante tra le prove atipiche liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’articolo 116 c.p.c., di cui il giudice è legittimato ad avvalersi, atteso che nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova.

Nella specie, la relazione scritta e redatta da un investigatore privato è stata utilizzata correttamente dai giudici di merito come prova atipica, avente valore indiziario, ossia è stata valutata unitamente ad altri elementi di prova ritualmente acquisiti.

Inoltre, viene rimarcato che la relazione investigativa era formata anche da materiale fotografico, la cui utilizzabilità ai fini decisori è espressamente riconosciuta dall’articolo 2712 c.c., anche in presenza di disconoscimento della parte contro la quale il materiale fotografico viene prodotto.

Ciò significa che, neppure il disconoscimento esclude l’autonoma valutazione della veridicità di detto materiale fotografico da parte del giudice, mediante ricorso ad altri mezzi probatori.

Il disconoscimento delle fotografie non produce gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’articolo 215, secondo comma, c.p.c., perché mentre questo preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

Pertanto, le doglianze relative alla relazione investigativa, oltre ad essere impropriamente formulate perché non concernenti un fatto storico, neppure sono pertinenti nel senso che si è precisato.

Alla luce delle suddette motivazioni la Corte ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente alle spese.

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Dopo essersi diplomata al Liceo Classico Salvatore Quasimodo di Magenta, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a pieni voti presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014, con tesi in diritto dell’esecuzione penale e del procedimento penale minorile, analizzando l’istituto del “Perdono Giudiziale”.

Coltivando l’interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia, dall’aprile 2014 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio, dove nel settembre de 2018, è diventata Avvocato, del Foro di Milano.