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La violenza sessuale realizzata contro il coniuge.

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

La Cassazione, con una recente sentenza, si esprime nuovamente sulla violenza sessuale tra coniugi, confermando l’orientamento in base al quale il rapporto matrimoniale (o di convivenza) non rileva per escludere il reato (Cass. 38909/24).

La pronuncia non è, quindi, originale, ma appare molto rilevante perché afferma a chiare lettere i principi essenziali sul consenso.

Un uomo, dopo la celebrazione del giudizio
abbreviato, veniva dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 609-bis c.p., commesso in danno della moglie, e condannato alla pena di anni due, mesi due e giorni venti di reclusione. La Corte di Appello, in riforma della sentenza del GUP, assolveva lo stesso con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.


Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale, deducendo inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Ed infatti, la Corte territoriale affermava che dalla testimonianza della persona offesa non emergeva il suo dissenso agli atti sessuali subiti e, quindi, sussisteva il dubbio sulla consapevolezza dell’imputato di agire in assenza del consenso del coniuge. Tuttavia, non aveva preso in considerazione che la donna aveva subito un rapporto sessuale, perché provava un grave timore per la propria incolumità fisica e per la sua stessa vita.

Essa viveva in un contesto fortemente vessatorio (menzionato nella sentenza), in una condizione di paura, di angoscia ed assoluta prostrazione. In buona sostanza, la Corte di Appello non aveva fatto “buon governo di consolidati principi di diritto affermati dalla Suprema Corte in tema di reati sessuali”.

In particolare, il Procuratore ricorda che il dissenso della vittima può essere esplicito o implicito, espresso o tacito e non è necessaria l’esteriorizzazione del dissenso attraverso una resistenza attiva. Il consenso deve ritenersi invalido quando l’atto sessuale è realizzato approfittando della situazione di difficoltà o dello stato di diminuita resistenza della vittima; ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale è sufficiente qualsiasi forma di costrizione psicofisica, idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione sessuale, anche mediante l’approfittamento dello stato di prostrazione della vittima, senza che rilevi l’esistenza di un rapporto coniugale o di convivenza.

La Cassazione ritiene il ricorso fondato, poiché le argomentazioni utilizzate dalla Corte di Appello sono carenti, contraddittorie e, soprattutto, non conformi ai principi ormai consolidati in tema di reati sessuali.

Ed invero i Giudici di Appello hanno dato atto del contesto vessatorio in cui viveva la vittima e nel quale si inseriva la consumazione degli atti sessuali (ossia reiterate minacce, offese e umiliazioni).

La donna, al momento dei fatti, teneva un comportamento “totalmente succube e teso solo a calmare il marito”. La stessa, in modo attendibile, aveva riferito di aver subito atti sessuali ed un rapporto completo non consenziente, per la paura di essere uccisa.

Tuttavia, secondo la Corte d’Appello “del suo dissenso, della sua opposizione agli atti sessuali tutti, non vi è traccia nel suo stesso racconto … pur essendo evidente come anche i fatti di giudizio andavano ad inserirsi nelle mortificazioni che infliggeva e pretendeva dalla moglie, quasi a punirla per il tradimento da lui subito, non vi è modo di affermare che l’imputato nello specifico episodio fosse consapevole di agire contro il suo volere, volere che la donna non gli aveva esternato accondiscendendo invece alle sue richieste”.

Per giungere a definire contraddittorie tali motivazioni, la Cassazione ricorda i principi fondamentali in tema di reati sessuali. In primo luogo, l’elemento oggettivo consiste sia nella violenza fisica, sia nella intimidazione psicologica “che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque, prevenendone la manifestazione di dissenso”.

Inoltre, l’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima va esaminata non secondo criteri astratti e aprioristici, ma valorizzando in concreto ogni circostanza oggettiva e soggettiva. Vi può, dunque, essere una intimidazione psicologica che influisca negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva.

Pertanto la violenza non deve essere tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che questa sia coartata. Non è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio fino al congiungimento: è sufficiente, invece, che il rapporto sessuale non voluto sia consumato anche approfittando della prostrazione, angoscia o diminuita resistenza della vittima.

Tale principio era stato affermato in una sentenza dello scorso aprile (Cass., 13218/24). In particolare, la Suprema Corte aveva precisato che per la valutazione dell’abuso sessuale, anche in un contesto di coabitazione e nei confronti della consorte, occorre considerare la condotta nel suo complesso, come l’ambito specifico in cui si è svolta, le modalità in cui si è in concreto estrinsecata, ma anche i comportamenti precedenti e seguenti, nonché il rapporto fra i soggetti.

Un altro principio espresso dalla più recente sentenza riguarda il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza: esso non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito i rapporti per le violenze e le minacce ripetute, con compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli. E, secondo gli Ermellini, nel caso analizzato è certamente sussistente la consapevolezza dell’agente del rifiuto, seppur implicito, ai rapporti sessuali.

Orbene, la Corte Territoriale non ha utilizzato correttamente i principi sopra richiamati, nonostante abbia menzionato il clima vessatorio vissuto dalla donna.
Sussiste sia il vizio di violazione di legge, che il vizio motivazione, poiché non sono stati analizzati concretamente le modalità della condotta, la volontà della vittima e la compressione della sua capacità di reazione per il timore di gravi ed ulteriori conseguenze.

La sentenza impugnata è stata, quindi, annullata con rinvio.

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Avv. Stefania Crespi

Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.