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La violenza economica come forma di maltrattamento: la rivoluzionaria sentenza della Cassazione

(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)

La Cassazione ha recentemente emesso un’importante sentenza sulla violenza economica (n. 1268/25).

Nel respingere il ricorso presentato dall’imputato, condannato in primo e secondo grado, la Suprema Corte rileva come dalla credibile testimonianza della persona offesa fossero emerse condotte violente, sessualmente umilianti, minatorie, ossessive e denigratorie davanti ai figli, utilizzati dall’imputato come strumenti di controllo della donna.

I comportamenti maltrattanti si sono verificati in un arco temporale di quasi vent’anni durante i quali la persona offesa era stata aggredita e anche minacciata di morte; molte sono state le condotte rivolte ad ostacolare l’emancipazione della donna dal punto di vista economico, negandole di intraprendere percorsi formativi e di trovare un’occupazione lavorativa, sostenendo che fosse meglio che rimanesse in casa con i figli, salvo utilizzarla come contabile nella sua azienda, senza versarle lo stipendio, né corrisponderle utili. Quando aveva trovato un’occupazione nel settore turistico, l’imputato non le aveva consentito di svolgerla, seguendola, chiamandola incessantemente, intimandole di tornare a casa davanti ai colleghi, ai clienti e umiliandola.

Secondo gli Ermellini, la sentenza impugnata ha puntualmente individuato i diversi profili attraverso i quali la condotta maltrattante, ripetuta nel tempo, si era realizzata, ossia psicologicamente, sessualmente, fisicamente ed economicamente.  In particolare, sotto il profilo economico è stata giustamente definita maltrattante la condotta dell’imputato volta ad ostacolare l’autonomia e l’indipendenza economica della moglie: la scelta di non svolgere alcuna attività lavorativa non era affatto libera e dovuta dal desiderio di accudire i figli, bensì impostale dal marito.

L’imputato aveva stabilito un regime discriminatorio nei confronti della moglie, impedendole di realizzare il suo desiderio di svolgere un’attività lavorativa che le consentisse una propria indipendenza economica. L’impedire di essere economicamente indipendente costituisce certamente violenza economica, riconducibile alla fattispecie del reato di maltrattamento in famiglia quando il comportamento vessatorio determini uno stato di prostrazione psicofisica e le scelte economiche ed organizzative prese in seno alla famiglia non siano condivise da entrambi, ma unilateralmente imposte.

La Suprema Corte ricorda come sia atto di violenza anche l’imposizione di forme di risparmio economico, quale modalità pervasiva di coartazione e controllo dell’imputato nei confronti della moglie, pur economicamente autonoma, ma idoneo a determinare un sistema di relazioni familiari basate su un regime di controlli inutilmente vessatorio e mortificatorio.

È ben vero che gli atti di violenza suscettibili di creare un pregiudizio di tipo economico non compaiono nei tradizionali testi normativi di produzione interna, ma per il tramite del diritto internazionale sono entrati a far parte dell’ordinamento e influiscono sull’applicazione del diritto.

La Cassazione ricorda la disposizione dell’articolo 3 della Convenzione di Istanbul, in base al quale con l’espressione violenza nei confronti delle donne si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica.

La Cassazione ricorda, altresì, la recente direttiva UE del 14 maggio 2024, numero 1385, in base alla quale sono rilevanti le forme di controllo economico nell’ambito della violenza domestica.

Pertanto, le seguenti condotte dell’imputato costituiscono atti maltrattanti, obiettivamente finalizzati alla limitazione dell’autonomia economica della persona offesa: osteggiare la coniuge nella ricerca di un’attività lavorativa, sottoponendola ad un controllo degli spostamenti attraverso un’installazione di una telecamera sul perimetro esterno dell’abitazione, non consentirle di coltivare e sviluppare un quadro di relazioni con persone esterne alla famiglia, imporle un ruolo casalingo sulla base di una rigorosa e discriminatoria ripartizione dei ruoli, delegare interamente l’incombenza alla coniuge della gestione della casa, così da farle abbandonare le proprie ambizioni professionali ed essere da lui mantenuta, non remunerare le attività svolte nell’interesse dell’azienda familiare con il proprio arricchimento.

Vi era l’imposizione di un sistema di potere asimmetrico all’interno del nucleo familiare di cui la componente economico-patrimoniale rappresenta un profilo di particolare rilievo perché costituisce oggetto di una decisione unilateralmente assunta dall’imputato anche attraverso forme manipolatorie e pressioni psicologiche tali da incidere sulla sua autonomia, sulla sua dignità umana, nonché sull’integrità fisica e morale.

Non si trattava certamente di mere liti familiari, come sostenuto nel ricorso: le condotte maltrattanti erano molto gravi, spesso originate dal desiderio della persona offesa di lavorare o comunque dalla trasgressione ai divieti da lui imposti, con conseguente e costante paura sia dei figli, che dalla donna.

La Suprema Corte definisce infondate le censure rivolte a sostenere che la testimonianza della persona offesa fosse priva di riscontri, a prescindere dal fatto che il giudice può trarre il proprio convincimento in ordine alla responsabilità penale dell’imputato per maltrattamenti sulla base delle sole dichiarazioni rese dalla persona offese (sempre che siano sottoposte ad un vaglio positivo la sua credibilità ed attendibilità intrinseca del suo racconto). Infatti vi erano le dichiarazioni dei figli e dei parenti stretti della persona offesa che, pur non necessarie, sono state correttamente individuate quali riscontri alla narrazione della persona offesa. Vanno ricordate anche le registrazioni, la sentenza di condanna di un tribunale spagnolo per minacce a danni della moglie nel 2017, nonché le parziali ammissioni rese dallo stesso imputato.

La sentenza analizzata rappresenta un importante passo per la tutela dell’autonomia, dell’integrità e della libertà individuale, in un’ottica di parità di genere e rispetto dei diritti umani.

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Avv. Stefania Crespi

Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.