
Violenza assistita: basta la dichiarazione della vittima per provare la presenza del figlio minorenne?
(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)
La Cassazione, con la sentenza n. 13839/2025, ha analizzato un caso di violenza domestica in cui l’imputato era accusato di aver reiteratamente vessato la moglie in presenza del figlio minorenne.
La questione principale riguardava l’applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 572, comma 2, c.p. e, in particolare, se fosse sufficiente la dichiarazione della persona offesa a provare la presenza del minore durante gli episodi di violenza.
La Suprema Corte ha risposto in senso affermativo, rilevando come la dichiarazione della vittima del reato sia sufficiente a dimostrare la presenza del figlio, purché si tratti di una narrazione chiara, coerente, credibile, non affetta da contraddizioni. In questi casi non è, dunque, necessario acquisire ulteriori prove (documentali o testimoniali).
Si tratta di un principio già affermato dagli Ermellini, ma qui ribadito con fermezza: nei reati commessi in ambito domestico, la parola della vittima può rappresentare la principale – se non l’unica – prova.
Ciò vale, in particolare, quando la condotta contestata assume maggiore gravità per la presenza di soggetti vulnerabili, come i figli minori, la cui esposizione alla violenza familiare costituisce un’aggravante: se il racconto è articolato, dettagliato e contestualizzato, l’aggravante si considera integrata senza bisogno di valutare riscontri esterni.
Secondo la Corte, il giudice può ritenere integrata l’aggravante della violenza assistita anche in assenza di altri riscontri, qualora il racconto della persona offesa sia attendibile, privo di incongruenze e in grado di delineare con precisione le modalità, i luoghi e i momenti in cui i fatti si sono verificati.
La configurabilità dell’aggravante non viene meno per il solo fatto che i figli della coppia abbiano reso dichiarazioni difensive in favore dell’imputato (limitandosi a riferire “aspre discussioni”), quando il giudice di merito abbia fornito una motivazione puntuale ed articolata circa l’attendibilità della persona offesa e abbia operato una critica specifica delle testimonianze dei figli, risultando illogico ipotizzare che la vittima abbia riferito il vero sui maltrattamenti subiti, ma non sulla presenza dei figli anche soltanto ad alcuni di quegli episodi.
In buona sostanza, perché ritenere credibile la vittima quando racconta i comportamenti violenti e non, invece, quando precisa che in alcuni episodi erano presenti anche i figli?
La sentenza assume un notevole rilievo, poiché sottolinea l’importanza dell’ascolto della vittima quale momento centrale nell’istruttoria dibattimentale. La sua testimonianza, se sorretta da credibilità intrinseca e coerenza logica, non richiede conferme.
La pronuncia si colloca nel solco di una giurisprudenza sempre più attenta alle dinamiche relazionali che caratterizzano i reati in ambito familiare e alla necessità di garantire una tutela effettiva, soprattutto quando le persone offese non hanno testimoni diretti.
La Cassazione ha, infatti, pronunciato varie sentenze in tema di violenza sessuale, sostenendo che la parola della vittima può fondare autonomamente la responsabilità penale, purché il racconto sia valutato con rigore e motivato in modo adeguato.
Più volte la Cassazione ha chiarito che dichiarazioni coerenti e dettagliate della vittima sono un’affidabile prova del reato.
Tale orientamento converge verso un atteggiamento più sensibile nei confronti delle vittime di gravi reati, ove esistono parecchie difficoltà nella raccolta delle prove, perché commessi in contesti privati.
In questi casi, la dichiarazione della vittima assume un valore decisivo, non solo per ricostruire i fatti, ma anche per accertare l’incidenza della violenza sulla stessa.
La decisione analizzata risponde a un’esigenza di effettività della tutela penale soprattutto quando il minore non può o non vuole essere sentito oppure quando, per paura del genitore maltrattante, non dice la verità.
Al centro del nostro lavoro c’è la persona. Studio Legale Di Nella è specializzato nel Diritto delle Famiglie, Diritto Internazionale della Famiglia, Diritto Collaborativo, Diritto della Persona, Diritto dei Minori, Diritto Penale Minorile, Sottrazioni internazionali dei Minori, Diritto delle Successioni e Donazioni e Diritto dell’Immigrazione.

Avv. Stefania Crespi
Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.