SÌ ALL’ASSEGNO DIVORZILE SE C’È UNA RILEVANTE DISPARITÀ ECONOMICA FRUTTO DI UNA SCELTA CONDIVISA.
(A cura dell’Avv. Maria Zaccara)
L’assegno divorzile deve essere riconosciuto ogni qualvolta sussista una rilevante disparità economico-patrimoniale tra gli ex coniugi, e tale disparità sia conseguenza diretta delle scelte condivise di vita matrimoniale, anche in assenza di un’esplicita rinuncia professionale. Questo il principio espresso dalla recente Ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n.18693/2025 pubblicata in data 9 luglio 2025.
Il caso di specie trae origine dalla Sentenza di divorzio pronunciata dal Tribunale di Bologna con la quale veniva confermato l’affido condiviso della figlia minore, l’assegnazione della casa coniugale alla madre, l’obbligo per il marito di versare un contributo al mantenimento dei figli oltre al 70% delle spese straordinarie nonché l’obbligo di versare un assegno divorzile alla moglie.
Proposto gravame da parte dell’ex marito la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma della Sentenza di primo grado, revocava l’assegno divorzile in favore della ex moglie. Secondo i Giudici territoriali, infatti, la moglie non avrebbe dimostrato di aver rinunciato a concrete opportunità professionali e, soprattutto, risultava aver ripreso la propria attività lavorativa pregressa, tale da garantirle autonomia reddituale. A ciò la Corte aggiungeva che il marito le aveva trasferito la propria quota di comproprietà dell’ex casa coniugale.
Avvero il suddetto provvedimento la ex moglie proponeva ricorso per Cassazione affidandosi a due motivi.
Con il primo motivo veniva lamentata la violazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, come interpretato dalla più recente giurisprudenza. La Corte territoriale non aveva riconosciuto alla ricorrente l’assegno divorzile nella sua componente perequativa-compensativa, pur a fronte dell’incontestato contributo fornito e dal sacrificio sopportato dalla donna nell’interesse comune della famiglia protratto per circa quindici anni.
Con il secondo motivo veniva evidenziato un vizio motivazionale per apparente contraddittorietà e per travisamento delle risultanze processuali.
La Suprema Corte, riunendo i due motivi in quanto strettamente connessi, accoglieva integralmente il ricorso.
Nelle motivazioni, i giudici di legittimità ricordano come le modifiche introdotte all’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio abbiano unificato in un’unica disposizione elementi di natura diversa (le condizioni dei coniugi, i redditi, il contributo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio, le ragioni della decisione) delineando così un sistema di criteri che il giudice deve valutare congiuntamente. Da questa combinazione emerge la natura dell’assegno divorzile: assistenziale, perequativa e compensativa. Tale funzione, osserva la Corte, trova fondamento nel principio costituzionale di solidarietà, che continua a operare anche dopo la dissoluzione del vincolo matrimoniale, al fine di riequilibrare le conseguenze economiche derivanti dalle scelte comuni di vita familiare.
Sulla base di questa premessa, la Cassazione ribadisce che la verifica dell’ “adeguatezza dei mezzi” del richiedente non può ridursi a un accertamento astratto della capacità di autosostentamento, ma deve essere compiuta attraverso una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali di entrambe le parti, considerando il contributo di ciascuno alla formazione del patrimonio comune e personale, la durata del matrimonio e l’età dell’avente diritto.
È questo il metodo necessario per cogliere la reale portata perequativa e compensativa dell’assegno, che non mira a garantire una mera assistenza economica, ma a restituire equilibrio alle posizioni dei coniugi, qualora lo squilibrio derivi causalmente dalle scelte condivise assunte durante il matrimonio.
Gli Ermellini specificano come l’autoresponsabilità deve percorrere l’intera storia della vita matrimoniale e non può essere invocato solo nella fase di scioglimento del vincolo. L’autoresponsabilità, spiega la Corte, è innanzitutto “di coppia”: riguarda le decisioni comuni sulla ripartizione dei ruoli, sul lavoro, sulla cura dei figli, sull’organizzazione della vita familiare. Solo quando il matrimonio si conclude, essa assume carattere individuale, imponendo a ciascun ex coniuge di procurarsi i mezzi per vivere in autonomia e con dignità. Ma l’autoresponsabilità individuale non può cancellare gli effetti delle scelte comuni compiute in precedenza, né giustificare l’azzeramento del dovere solidaristico verso chi, proprio in virtù di quelle scelte, si trova in posizione economica deteriore.
Alla luce di tale principio, la Corte di Cassazione chiarisce che la funzione perequativo-compensativa dell’assegno deve essere riconosciuta non solo quando vi sia una rinuncia espressa o concordata a occasioni professionali, ma anche quando la conduzione familiare sia stata di fatto univoca, espressione di una scelta comune tacita. Il contributo esclusivo o prevalente di un coniuge alla vita domestica e alla cura dei figli, o alla formazione del patrimonio dell’altro anche in forma indiretta, integra di per sé il presupposto per il riconoscimento dell’assegno, purché lo squilibrio economico riscontrato sia riconducibile a tali scelte condivise.
Proprio su questo punto la Corte censura la motivazione della decisione impugnata, ritenendo che la Corte d’appello di Bologna abbia applicato un “quadro interpretativo non appropriato alla fattispecie”. In primo luogo, perché ha preteso la prova di una rinuncia formale ad aspettative professionali, trascurando che la lunga dedizione alla famiglia rappresenta essa stessa una modalità di contributo alla vita comune. In secondo luogo, perché ha fondato il rigetto anche sull’erroneo presupposto del trasferimento della quota di proprietà della casa coniugale, circostanza smentita dagli atti, poiché l’intestazione al 50% risaliva al momento dell’acquisto e non costituiva alcuna liberalità successiva.
La Cassazione, pertanto, afferma che la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se la disparità reddituale tra gli ex coniugi fosse causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla ripartizione dei ruoli e al sacrificio delle aspettative professionali della moglie. Poiché ciò non è avvenuto, la motivazione risulta viziata sia sul piano logico che su quello giuridico, imponendo la cassazione della sentenza e il rinvio alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
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Dopo essersi diplomata al Liceo Classico Salvatore Quasimodo di Magenta, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a pieni voti presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014, con tesi in diritto dell’esecuzione penale e del procedimento penale minorile, analizzando l’istituto del “Perdono Giudiziale”.
Coltivando l’interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia, dall’aprile 2014 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio, dove nel settembre de 2018, è diventata Avvocato, del Foro di Milano.









