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Risarcimento del danno per il figlio non riconosciuto dal padre.

(A cura dell’Avv. Maria Zaccara)

Con l’ordinanza n.31552/2024 pubblicata il 9 dicembre 2024 la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema del risarcimento del danno non patrimoniale subito da un figlio a causa del mancato riconoscimento da parte del padre, con particolare attenzione al periodo di vita successivo alla maggiore età del figlio.

Il caso trae origine da una pronuncia del Tribunale di Monza, che aveva accertato la paternità biologica di un uomo nei confronti di un figlio, nato nel 1976, e aveva condannato il padre al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal figlio per effetto della mancata assunzione delle responsabilità genitoriali. La condanna era pari a € 33.600,00 oltre interessi legali.

Il Tribunale aveva ritenuto, in quella sede, che il danno derivante dall’assenza paterna fosse risarcibile per l’intero arco temporale della minore età del figlio.

Il figlio impugnava la suddetta pronuncia innanzi alla Corte d’Appello di Milano, che tuttavia rigettava l’appello principale.

In particolare, la Corte territoriale aveva riconosciuto, ai fini risarcitori, il solo danno patito dall’attore originario nel periodo della minore età. Tale scelta si fondava sull’assunto generale secondo cui il danno da assenza genitoriale sarebbe “maggiormente percepibile” durante l’infanzia e l’adolescenza, mentre verrebbe vissuto con minore intensità, “senza particolari percezioni”, una volta raggiunta la maggiore età.

Inoltre, la Corte d’Appello aveva operato una significativa riduzione del quantum risarcitorio, parametrando il danno alle tabelle utilizzate per la perdita del genitore per morte, ma applicando una decurtazione di quattro quinti. Ciò veniva giustificato sia dalla diversa natura dell’evento (assenza per inerzia e non per decesso), sia dalla presunta “rimediabilità” del danno per effetto dell’azione giudiziaria di accertamento della paternità, sia, infine, dall’incertezza in ordine alla qualità della relazione padre-figlio che si sarebbe instaurata se il riconoscimento fosse avvenuto spontaneamente.

Avverso la suddetta sentenza il figlio proponeva ricorso per Cassazione.

Con il primo motivo veniva lamentato che la Corte d’Appello aveva limitato la risarcibilità del danno al solo periodo della minore età.

Con il secondo motivo, invece, veniva criticata l’arbitrarietà con cui era stato quantificato il danno, stigmatizzando la decurtazione operata sulla base di criteri generici e non aderenti alle circostanze del caso concreto.

La Suprema Corte ha analizzato congiuntamente i due motivi e li ha ritenuti fondati.

In primo luogo, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’inerzia del genitore nel riconoscimento del figlio e nell’adempimento dei doveri morali e materiali configura un illecito civile che può dar luogo ad autonoma azione di risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c. Tale danno è proporzionato alla durata e intensità della condotta abbandonica e non può considerarsi automaticamente concluso con il raggiungimento della maggiore età del figlio.

La motivazione della Corte d’Appello, secondo cui il figlio “possa vivere la sua vita senza particolari percezioni di tale assenza” dopo i 18 anni, viene definita astratta e scollegata dai fatti concreti del caso. In particolare, la Corte d’Appello ha omesso di valutare elementi fattuali rilevanti, quali il comportamento del padre che, pur consapevole dell’esistenza del figlio sin dalla nascita, non lo ha mai incontrato e non ha mostrato alcun ravvedimento nel corso degli anni. La durata e consapevolezza dell’abbandono, unite alla mancata attivazione di qualsivoglia relazione affettiva, costituivano, secondo gli Ermellini, elementi decisivi ai fini della persistenza del danno anche in età adulta.

La Suprema Corte sottolinea inoltre che il danno da abbandono genitoriale non è un evento istantaneo, ma ha natura permanente, e che la deprivazione del rapporto può continuare a produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera psico-affettiva del soggetto leso anche dopo la maggiore età, soprattutto quando, come nel caso di specie, il comportamento omissivo non è mai cessato.

Sul piano della quantificazione del risarcimento, la Suprema Corte di Cassazione censura l’operato della Corte d’Appello per aver applicato un abbattimento del danno (quattro quinti del valore base delle tabelle milanesi per perdita del genitore) senza una motivazione specifica, fondata su dati fattuali. In particolare, l’argomentazione secondo cui il danno sarebbe “rimediabile” per effetto della dichiarazione giudiziale di paternità viene respinta dalla Corte di legittimità come giuridicamente infondata. La Cassazione precisa che la dichiarazione di paternità può al massimo attribuire lo status filiationis, ma non sana né attenua automaticamente il pregiudizio emotivo derivante dall’assenza affettiva prolungata.

Allo stesso modo, viene ritenuta arbitraria la valutazione della Corte territoriale sull’ “incertezza della qualità della relazione” come elemento riduttivo del danno. Secondo gli Ermellini, proprio l’impossibilità di sperimentare tale relazione costituisce il cuore del pregiudizio risarcibile: l’assenza non solo ha impedito lo sviluppo di un legame, ma ha anche privato il figlio della possibilità di dare forma concreta a quella relazione, con effetti deleteri sulla propria dimensione affettiva.

Infine, la Corte censura l’omessa considerazione da parte dei giudici d’appello delle doglianze sollevate dall’appellante in merito alla gravità e inemendabilità della condotta paterna, alla condizione personale del figlio, divenuto adulto senza mai ricevere alcun sostegno, e al tenore di vita agiato del padre, elementi tutti idonei a influenzare in modo decisivo la determinazione del danno. L’assenza di qualunque menzione di tali profili conferma, secondo la Cassazione, l’impostazione stereotipata e astratta della sentenza impugnata.

Alla luce dei suddetti motivi la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassato la Sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione.

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Dopo essersi diplomata al Liceo Classico Salvatore Quasimodo di Magenta, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a pieni voti presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014, con tesi in diritto dell’esecuzione penale e del procedimento penale minorile, analizzando l’istituto del “Perdono Giudiziale”.

Coltivando l’interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia, dall’aprile 2014 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio, dove nel settembre de 2018, è diventata Avvocato, del Foro di Milano.