Il Dalai Lama, la Cassazione e i reati culturalmente motivati o orientati
(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)
L’episodio accaduto qualche mese fa in un tempio in India, che vede quale protagonista il Dalai Lama, e una recente sentenza della Cassazione hanno portato l’attenzione sul fenomeno dei c.d. “reati culturalmente orientati o motivati”.
Il Dalai Lama ha baciato sulle labbra un bambino e poi gli ha chiesto di “succhiargli la lingua”. Il relativo video ha fatto il giro del mondo in aprile e così il guru buddista ha chiesto scusa sul suo account Twitter, sottolineando come avesse voluto interagire con le persone – e in questo caso con un bambino – “in an innocent and playful way”, ossia in modo innocente, scherzoso, per gioco.
Nonostante le scuse, il gesto ha sollevato molte critiche ovunque, anche nel nostro paese, poiché – indipendentemente dalle intenzioni “scherzose” del Dalai Lama e dal suo contesto culturale – quantomeno in Italia costituisce ipotesi attenuata di violenza sessuale.
Ed invero da tempo la Cassazione sostiene che l’assenza del fine di “concupiscenza” non può in alcun modo giustificare condotte che violano la sfera sessuale delle persone e, in particolare, dei minori.
Infatti, l’assolutezza del diritto tutelato dall’art. 609 bis c.p. non consente attenuazioni collegate a fini ulteriori e diversi rispetto alla sola consapevolezza di compiere un atto sessuale: il dolo richiesto per la violenza sessuale è quello generico e, dunque, è sufficiente che l’agente sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto realizzato volontariamente, indipendentemente dal fine personale.
Secondo giurisprudenza costante non è rilevante se il soggetto – nel caso della violenza sessuale attenuata – agisca in modo “amichevole e affettuoso” o per finalità “goliardiche”.
Inoltre, persino un bacio sulla guancia può configurare violenza sessuale, quando “in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima” (Cass. sent. n. 6158/21).
Il Dalai Lama è stato, invece, giustificato da alcuni per “motivazioni culturali”.
Orbene, per quanto concerne i reati culturalmente motivati va preliminarmente osservato come si tratti di fatti che, mentre per il diritto penale italiano integrano reato, per chi li commette sono leciti, perché accettati nei Paesi da dove provengono o tollerati dalle proprie culture di appartenenza o, ancora, giustificati in ragione delle norme giuridiche vigenti nell’ordinamento di origine.
E’ innegabile che la società italiana, come quella di altri Paesi europei, negli ultimi decenni sia sempre più multiculturale per effetto dell’immigrazione e che sia, pertanto, opportuno trovare un equilibrio tra la cultura degli immigrati e la tutela di diritti fondamentali: spesso i reati commessi per motivi culturali si sostanziano nell’offesa a beni costituzionalmente tutelati, come ad esempio, la mutilazione degli organi genitali o la costrizione al matrimonio.
Nei paesi di Common Law, grazie alla “cultural defense” il giudice può applicare un trattamento sanzionatorio più lieve, se l’imputato ha commesso un fatto che secondo una norma giuridica del suo Paese è legittimo.
E in Italia? La più attuale giurisprudenza di legittimità ha pronunciato alcune sentenze di condanna nelle quali il fattore culturale è stato preso in considerazione per la riduzione della pena attraverso la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Tuttavia, la Cassazione ha anche condannato, escludendo qualsivoglia valore alla cultura dell’imputato straniero. Giova citare a tal proposito una recente pronuncia della Suprema Corte su un ricorso proposto avverso una sentenza d’appello che confermava la condanna inflitta in primo grado ad un cittadino extracomunitario per il reato di violenza sessuale aggravata e maltrattamenti ai danni della moglie.
La Suprema Corte ha rigettato tale ricorso, sottolineando come l’imputato non possa essere assolto per mancanza di dolo, ossia per la volontà di porre in essere la violenza sessuale contro la moglie, poiché – come sostenuto dalla difesa – erano sposati e voleva avere un figlio maschio dalla stessa.
Ed infatti, non rileva affatto né il motivo culturale per il quale si pone in essere una condotta violenta e maltrattante, né la differente concezione della “relazione coniugale e dell’approccio al rapporto sessuale”: deve prevalere la tutela dei beni giuridici che costituiscono diritti fondamentali, come l’integrità fisica e morale (Cass., sent. 3 aprile 2023, n. 13786).
Pare opportuno riportare le parole della Cassazione: “In tema di reati sessuali, non assumono alcun rilievo scriminante eventuali giustificazioni fondate sulla circostanza che l’agente, per la cultura mutuata dal proprio paese d’origine, sia portatore di una diversa concezione della relazione coniugale e dell’approccio al rapporto sessuale, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di diritti fondamentali dell’individuo – e che in tema di cause di giustificazione – lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica”.
Pertanto, “nessuna motivazione culturale può giustificare, neanche in termini di errore sulla legge penale italiana, violazioni dell’integrità fisica e morale dell’individuo”.
Un’ultima considerazione va svolta con riferimento alla motivazione sostenuta dalla difesa nel ricorso, secondo la quale il fatto che la vittima e l’imputato fossero sposati, doveva essere valutato.
Sul punto si è espressa la Cassazione più volte, anche recentemente con la sentenza n. 1170/23: la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un marito che aveva avuto rapporti con la moglie perché “lei aveva paura delle conseguenze di un no” e “spesso minacciata”: “in tema di violenza sessuale il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge in costanza di convivenza, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e minacce ripetutamente poste in essere“ con conseguente “compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza dell’autore delle violenze del rifiuto, seppur implicito, ai congiungimenti carnali”.
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Avv. Stefania Crespi
Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.