Niente assegno divorzile alla moglie benestante che sceglie di non dedicarsi al lavoro
(A cura dell’Avv. Angela Brancati)
Il tema sui presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile è oggetto costante di pronunce da parte sia delle Corti di merito che di legittimità, che si trovano di sovente investite della questione in tutti i gradi del giudizio.
La questione che oggi, infatti, ci occupa è proprio quella dell’assegno divorzile su cui è stata chiamato a pronunciarsi dapprima il Tribunale di Vicenza e successivamente la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 800/2024 di recente pubblicazione.
La vicenda prendeva le mosse da un giudizio divorzile incardinato dinanzi il Tribunale di Vicenza dal marito il quale domandava la pronuncia sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio non essendo mai intervenuta tra i coniugi la riconciliazione a far data della separazione. Il ricorrente inoltre esponeva di essere perito elettrotecnico, di aver liquidato la propria azienda per dedicarsi maggiormente alla famiglia e alla figlia appena nata, di aver donato in costanza di matrimonio un immobile alla moglie del valore di Euro 300.000,000 e di aver acquistato una nuova abitazione dopo la separazione contraendo un mutuo. Tali accadimenti avevano comportato una riduzione sensibile del proprio reddito dall’epoca della separazione. Secondo quanto esposto dal ricorrente la moglie di professione architetto non aveva diritto a ricevere un assegno divorzile in quanto in grado di procurarsi un reddito autonomo.
Si costituiva in giudizio la donna adducendo contrariamente a quanto sostenuto dal marito di aver sacrificato la di lei carriera e aspirazioni professionali per consentire al marito imprenditore di potersi occupare a tempo pieno del lavoro, contribuendo pertanto alla realizzazione professionali di quest’ultimo e alla formazione del patrimonio comune familiare. Aggiungeva di avere difficoltà all’età di 51 anni a reinserirsi nel mondo del lavoro e di essere proprietaria di due abitazioni, l’una messa a reddito e l’altra adibita a nuova abitazione familiare per il cui acquisto aveva accesso un mutuo. Il marito, invece, risultava titolare di quote in diverse società, proprietario di due differenti immobili e di un’auto e una moto acquistate poco prima del giudizio. La resistente dichiarando di poter ambire solo alla percezione di una pensione minima evidenziava la presenza di una sperequazione reddituale tra i coniugi.
Il Tribunale lette le memorie istruttorie e ammettendo solo alcuni mezzi di prova circa l’esibizione dei conti correnti e dei titoli disponeva CTU contabile e ordinava la produzione delle dichiarazioni dei redditi aggiornate nonchè la documentazione circa i compensi da ultimo percepiti per la direzione di lavori svolti nel corso dell’anno.
Espletata la perizia, il Tribunale di primo grado con sentenza disponeva l’affidamento condiviso della figlia minorenne ad entrambi i genitori con collocamento prevalente presso la madre, un contributo al mantenimento per quest’ultima da parte del padre nella misura di Euro 1.000,00, la ripartizione al 50% delle spese straordinarie tra i genitori fatta eccezione delle rette scolastiche e della mensa interamente sostenute dal padre. Veniva altresì stabilito che l’ex marito versasse a favore della ex moglie un assegno divorzile per l’importo pari ad € 500,00 mensili.
Quanto alle spese di lite il Tribunale le compensava per la metà, ponendole a carico di parte ricorrente per l’altra metà, poneva altresì sempre a carico di quest’ultima la liquidazione dei compensi del CTU e disponeva che la perizia e la sentenza fossero trasmesse agli organi competenti circa la verifica della veridicità delle dichiarazioni dei redditi.
Avverso la pronuncia proponeva appello l’uomo lamentando che il Tribunale non aveva considerato le molteplici attività professionali svolte dalla moglie in costanza di matrimonio, aveva errato nella considerazione dell’impegno anche paterno per l’accudimento della figlia; non aveva in alcun modo dato alcun apprezzamento e rilevanza alle donazioni del marito a favore della moglie in costanza di matrimonio, aveva errato nel dare peso alle risultanze della CTU in ordine all’incongruenza delle proprie dichiarazioni dei redditi.
Si costituiva in giudizio la ex moglie eccependo nel rito la genericità dei motivi del gravame e conseguentemente l’inammissibilità dell’appello e nel merito l’impossibilità di dedicarsi alla carriera professionale di architetto in costanza di matrimonio, avendo solo mantenuto l’iscrizione alla Cassa di appartenenza ai fini pensionistici, essendosi occupata sporadicamente di qualche progetto e per attività di mera consulenza, dovendosi prendere cura in maniera esclusiva della figlia dopo la fine dell’orario scolastico. La resistente in ragione di quanto emerso nel corso della perizia confermava che stante la crescita professionale, il marito in costanza di matrimonio non si era occupato della famiglia come invece dichiarava e l’assegno divorzile aveva nel caso di specie una funzione perequativo-compensativa e non assistenziale.
La Corte d’Appello di Venezia evidenziando in prima battuta che le doglianze mosse da parte appellante dovevano ritenersi “ancorate al contenuto della decisione sottoposta a gravame”, considerava quest’ultimo fondato.
Quanto all’assegno divorzile, ai presupposti atti al riconoscimento e alla sua composita funzione assistenziale, perequativo-compensativa la Corte d’Appello aveva ritenuto che nel caso di specie questo non dovesse essere riconosciuto in capo all’ex moglie e ciò per diversi ordini di ragioni.
Al riguardo la Corte territoriale partendo dall’assunto che alcuna funzione assistenziale nel caso di specie avrebbe potuto dispiegare l’assegno divorzile, possedendo la ex moglie un patrimonio immobiliare tutt’altro che trascurabile come emerso in sede di CTU si soffermava a verificare l’esistenza invece di una sperequazione economica dettata unicamente dall’apporto che la donna aveva fornito all’interno della famiglia con rinuncia e sacrificio delle proprie aspirazioni professionale. Solo in tal caso, infatti, si sarebbe potuto riconoscere l’assegno nella sua componente compensativa-riequilibratrice.
La Corte riteneva che 18 anni di matrimonio di cui i primi 13 senza prole trascorsi godendo di aiuti domestici e di un tenore di vita agiato dovevano ritenersi assolutamente congrui e idonei ”a coltivare e sviluppare occasioni lavorative confacenti alle capacità ed alle aspirazioni dell’interessata”. Era stato altresì dimostrato che molte delle occasioni lavorative in costanza di matrimonio le erano state offerte proprio dalle società appartenenti all’altro coniuge.
La Corte inoltre non ravvisava alcun apporto offerto dalla moglie per il rafforzamento della capacità lavorativa del marito vista già l’agiatezza in cui viveva la coppia. In altri termini commentava la Corte, la donna “non sembra avere avuto al reale necessità di possedere un’occupazione fissa, perchè X le ha ampiamente assicurato il mantenimento; in aggiunta le ha fornito – direttamente o indirettamente – plurime occasioni di realizzazione professionale, sia attraverso le sue aziende (v. ripetute consulenze esterne alla X, sia “supportando” occasionali iniziative imprenditoriali della moglie che non le ha smentite (v. attività di vendita di borse ni cuoio ed attività di promozione turistica)”. La resistente inoltre nulla aveva dimostrato circa il di lei apporto all’interno della famiglia e grazie al quale il marito avrebbe potuto consolidare la propria posizione lavorativa, ne aveva provveduto a dimostrare quali fossero stati i sacrifici dalla stessa in costanza di matrimonio, non essendo risultato il proprio desiderio di inserimento concreto nel mondo del lavoro stante le proprie capacità, avendo preferito all’inserimento in uno studio lavorare come free lance senza vincoli.
La Corte territoriale non ritenendo provato l’elemento da cui discendeva la lamentata sperequazione economica e non avendo neppure provato il sacrificio soprattutto prima della nascita della figlia da parte della ex moglie, avendo la stessa deciso liberamente di non affermarsi professionalmente, revocava la precedente statuizione in ordine al riconoscimento di un assegno divorzile, e condannava la donna alla rifusione di 1/3 delle spese di lite per il giudizio di primo grado e dell’intero per il secondo grado.
Confermava per il resto la sentenza di primo grado quanto alle spese della CTU e all’invio di quest’ultima agli organi competenti in ordine alla rilevata inattendibilità dei redditi fiscalmente dichiarati.
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Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università degli Studi di Parma nel 2016, con tesi in diritto diritto amministrativo.
Successivamente ha svolto il tirocinio ex art. 73 DL 79/2013 presso il Tribunale per i Minorenni di Milano dove ha coltivato il proprio interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia. Dal maggio 2018 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio.
Dal novembre 2019 ha conseguito il titolo di Avvocato e ad oggi appartiene al Foro di Milano.