Condotte coercitive e ciclo della violenza: la relazione abusante nel delitto di maltrattamenti.
(A cura dell’Avv. Stefania Crespi)
La Cassazione, con una recente sentenza, ha confermato la condanna per maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. pronunciata nei confronti di un uomo che, nel corso della relazione con la compagna, aveva posto in essere condotte autoritarie, affettivamente ricattatorie e coercitive, espressive di un rapporto di dominio e di controllo totale (sent. n. 35667/25).
Le condotte, come ricostruito dai Giudici di merito, avevano assunto un carattere sistematico e oppressivo, consistite nell’averle imposto di cessare ogni attività lavorativa, quale condizione per la prosecuzione del loro rapporto, arrivando persino a convincerla a trasferire i propri risparmi su una carta ricaricabile Postepay da cui l’imputato aveva ritirato tutto il denaro, conoscendone solo lui i codici di accesso; nell’averle impedito amicizie di sesso maschile, perché “a una donna perbene non si addicevano”; nell’averla allontanata dalla sua migliore amica, definita “una poco di buono” e minacciata di vedersi incendiata l’auto, se si fossero frequentate; nell’averla picchiata in più occasioni – in un caso minacciandola con un coltello – per avere salutato per strada persone da lui non conosciute; nell’averla assoggettata a un costante controllo del telefono cellulare e dei messaggi; nell’averla chiusa a chiave in casa per impedirle di uscire, soprattutto quando doveva ricorrere a cure mediche a seguito delle sue violenze; nell’averla isolata dai genitori, che poteva incontrare solo in sua presenza e davanti ai quali l’uomo si mostrava amorevole e premuroso; nell’averle impedito rapporti diretti con i medici curanti, possedendo solo lui i loro numeri di telefono e presenziando a tutte le visite; nell’averla sottoposta a continuative minacce di morte, insulti e mortificazioni in quanto donna e rispetto a una precisa assegnazione di ruolo (“non sei buona neanche a letto… non sei buona neanche ad avere figli… sei una persona inutile… che pesa sulla società”), nonché ad aggressioni fisiche come sbatterle la testa contro il muro, tirarle i capelli, scaraventarla dal letto, schiaffeggiarla, afferrarla al collo e picchiarla, sempre facendo attenzione a non procurarle segni in zone del corpo visibili.
Il quadro probatorio era stato corroborato dalle dichiarazioni dei genitori e di altri testimoni. In particolare, la madre della vittima aveva riferito numerosi episodi controllanti del compagno nei confronti della figlia, tali da determinarne l’allontanamento da tutte le amicizie e dai genitori che, infatti, potevano vederla solo in sua presenza e non allontanandosi mai da lei, persino accompagnandola in bagno; non poteva incontrare la madre da sola. Ciò aveva comportato la drastica riduzione di autostima e la continua colpevolizzazione della figlia che veniva fatta sentire sbagliata, fino a provocare uno stato grave di prostrazione anche da incinta (“la teneva come se fosse stato un animale, un cane”), con ricaduta nell’anoressia, da cui era uscita prima di incontrarlo, e con “l’interdizione di qualsiasi attività perché le sue donne non dovevano lavorare”.
Il padre della vittima aveva confermato la condotta prevaricatoria dell’uomo e le persecuzioni imposte alla figlia fino al termine della relazione, tanto da doverla accompagnare ovunque per proteggerla.
Anche la ex cognata, amica della vittima, aveva dichiarato che l’imputato “non solo incalzava la donna con domande continue, controllandola in modo ossessivo con messaggi e telefonate, ma le aveva vietato di frequentare le amiche, di lavorare e di utilizzare l’auto”.
L’imputato, nel ricorrere per cassazione, contestava la sussistenza del reato, sostenendo che si trattasse di litigi isolati e reciproci, privi di quella sistematicità e abitualità richieste dall’art. 572 c.p..
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione ha valorizzato il principio secondo cui il delitto di maltrattamenti si concretizza attraverso una pluralità di condotte vessatorie, anche non sempre omogenee, idonee a creare nella vittima un regime di vita doloroso e mortificante.
La Suprema Corte ha ribadito che “la relazione di coppia abusante si fonda su un ciclo della violenza in cui alla fase di sopraffazione si alternano momenti di apparente riconciliazione, che rafforzano il legame di dipendenza e la difficoltà della vittima di sottrarsi alla relazione”.
Infatti, dopo averlo lasciato, lui era diventato più affettuoso e si mostrava pentito, fino a convincere la donna a provare di nuovo e tornare insieme. E il ciclo era ricominciato: l’ordine di pulire la casa e cucinare appena uscita dall’ospedale dopo una minaccia di aborto e tanti altri agiti violenti.
Richiamando il concetto di ciclo della violenza domestica, la Suprema Corte ha sottolineato che il giudice deve considerare il contesto complessivo, in cui “la paura, la dipendenza affettiva e la perdita di autostima impediscono spesso alla vittima di denunciare o di allontanarsi” e che l’esistenza di fasi di tregua o di apparente normalità non esclude la configurabilità del reato.
Nel ciclo della violenza ci sono tre fasi: la prima fase, di crescita della tensione, è quella nella quale si manifestano le forme tipiche della violenza psicologica e verbale. L’autore mostra irritabilità, ostilità crescente e freddezza; assume comportamenti volti a colpevolizzare, umiliare e sminuire l’identità della partner; impone divieti rispetto alla sua vita sociale e la isola. Così la vittima cerca di evitare l’escalation di violenza, accontentando il partner, riducendo drasticamente la propria vita di relazione (amicale, parentale, lavorativa e sportiva), evitando comportamenti che possano creare conflitto, con conseguente demolizione delle proprie capacità e dell’autostima. Sopravviene un forte senso di inadeguatezza rispetto all’obbligo, sociale e culturale, di salvare la relazione e tenere unita la famiglia ad ogni costo, senza la percezione dell’illiceità delle condotte che subisce.
La seconda fase è quella dell’esplosione della violenza fisica, in cui l’autore percuote la vittima, la terrorizza con danneggiamenti e diverse forme sopraffattorie.
È il momento più pericoloso e, infatti, è quello in cui la paura induce la vittima a chiedere aiuto ad amici e parenti, a denunciare, ad esprimere la volontà di separarsi, a recarsi al pronto soccorso per curarsi, a rivolgersi ad un centro antiviolenza per ottenere supporto, a cercare di mettere in salvo sé e i propri figli, pur nella speranza di riuscire a cambiare il proprio partner e mantenere unito il nucleo familiare.
La terza fase, di riappacificamento (cosiddetta “luna di miele”), è quella nella quale l’aggressore esprime forme di rassicurazione, di pentimento, promette di cambiare e di non ripetere le violenze, individua cause esterne della propria violenza e convince la vittima della loro transitorietà, fino a riconquistarne la fiducia. In questo modo la donna si confonde, minimizza quanto subito, se ne attribuisce in parte la responsabilità, ritiene che la violenza sia stata solo una parentesi in un momento di difficoltà e riprende la convivenza in una condizione di apparente calma, ma di subordinazione, spesso temendo per la sorte dei propri figli.
Questa alternanza si ripete nel tempo e le diverse fasi si intensificano e si aggravano, in una spirale strutturata che spiega perché molte vittime di violenza domestica ritornano nella relazione maltrattante – come avvenuto nel caso sottoposto alla Corte – ritrattano le accuse e non sono più in grado di uscirne, sempre più immobilizzate da paura, isolamento e dipendenza (soprattutto economica).
Nel caso di specie, la Cassazione ha riconosciuto come pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa, coerenti, dettagliate e riscontrate da elementi oggettivi e da testimoni, ritenendo corretta la ricostruzione del giudice di merito, che aveva individuato un “quadro sistematico di sopraffazione fisica e psicologica, espressivo di un dominio totale e di una negazione della libertà personale e relazionale della donna”.
Le sentenze di merito hanno correttamente valorizzato le evidenti fragilità della persona offesa, derivanti dalla sua pregressa malattia (anoressia), che hanno fornito al ricorrente l’occasione per gravi forme di umiliazione e colpevolizzazione, fra l’altro appellando la compagna “pazza anoressica”.
In ordine alla censura circa la tempistica della denuncia (avvenuta a distanza di tre anni dall’inizio dei maltrattamenti), a prescindere dalla paura della persona offesa per la reazione che avrebbe suscitato nel compagno, già condannato per condotte violente nei confronti della precedente moglie, occorre ricordare che il delitto di maltrattamenti è procedibile d’ufficio. Ciò vuol dire che il momento in cui denunciarne la commissione è rimesso alla scelta della vittima e non può ritorcersi ai suoi danni, soprattutto a fronte di delitti di violenza contro le donne, di genere e domestica, in cui sono coinvolti legami intimi che, in quanto tali, limitano fortemente la libertà decisionale e i tempi di maturazione di una decisione dagli effetti umanamente e giuridicamente deflagranti.
Inoltre, il differimento nel tempo del momento in cui la vittima decide di denunciare all’Autorità Giudiziaria può avere molteplici ragioni. Si tratta di scelte personali, connesse alle condizioni di vita, oggettive e soggettive, della persona offesa, estranee alla consumazione del reato.
La pronuncia in esame si inserisce nel solco della più recente giurisprudenza che, in tema di maltrattamenti, riconosce la centralità dell’analisi del contesto relazionale e psicologico della vittima, valorizzando la continuità delle condotte e la loro incidenza sul benessere fisico ed emotivo della stessa, quale manifestazione tipica del ciclo della violenza domestica.
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Avv. Stefania Crespi
Svolge la sua attività dal 1996 presso lo Studio Legale Ravaglia, dove ha maturato una consolidata esperienza e specifica competenza nel Diritto penale d’impresa, seguendo processi in tema di reati societari, finanziari, fallimentari, reati contro la pubblica amministrazione, responsabilità penale in ambito sanitario, nonché per violazioni del codice stradale.
Collabora da anni con lo Studio Legale Di Nella per i procedimenti penali concernenti i reati contro la famiglia.








