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NESSUN MANTENIMENTO ALLA MOGLIE CHE RIFIUTA SENZA MOTIVO UN LAVORO
(A cura dell’Avv. Maria Grazia Di Nella)
La giovane moglie non ha diritto al mantenimento se rifiuta senza un valido motivo un lavoro e non prova di essersi attivata per cercarne un altro.
La disparità di reddito tra i coniugi diventa così un elemento irrilevante se in via preliminare non viene offerta prova di un’adeguata ricerca di un lavoro.
È quanto affermato dalla Cassazione con l’ordinanza n. 3354 del 10 gennaio 2025 che dichiara inammissibile il ricorso di una giovane donna che si era visto revocare l’assegno di mantenimento da parte della Corte d’Appello di Reggio Calabria.
Gli Ermellini, infatti, hanno ribadito come in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita.
Grava, pertanto, sul coniuge che richiede un contributo al mantenimento, ove risulti accertata la sua capacità di lavorare, l’onere di dimostrare di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato per reperire un’occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali, poiché il riconoscimento dell’assegno a causa della mancanza di adeguati redditi propri, pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in grado di procurarsi da solo.
Nel caso giunto in Cassazione, il Tribunale di Palmi aveva emesso sentenza di separazione di una coppia unita in matrimonio solo quattro anni prima e, respinta la richiesta di addebito formulata dal marito a carico della moglie, aveva liquidato un contributo al mantenimento della moglie tenuto conto del di lei stato di disoccupazione, della circostanza che al suo mantenimento avesse sempre provveduto li marito e della rilevante disparità economica tra i coniugi.
Avverso tale sentenza il marito adiva la Corte d’Appello di Reggio Calabria chiedendo che la separazione fosse addebitata alla moglie, che fosse rigettata la di lei domanda di riconoscimento del diritto al mantenimento, stante l’addebito alla stessa della separazione e la circostanza che ella non aveva provato la sussistenza delle condizioni per tale riconoscimento.
In particolare l’uomo lamentava che la responsabilità della intollerabilità della convivenza fosse da attribuire alla violazione, da parte della moglie dei doveri coniugali per averlo trascurato dedicandosi spesso ai social network anche in sua presenza e non partecipando ai funerali del padre, nonché per avere abbandonato il domicilio domestico, senza che fossero accaduti degli episodi tali da rendere intollerabile la convivenza.
Poiché nel coso di specie, il materiale probatorio acquisito non consentiva di affermare che il comportamento di uno od entrambi i coniugi fosse stata la causa del fallimento della convivenza; che l’istruttoria espletata per testimoni in primo grado consentiva di accertare che la giovane donna avesse rifiutato un’offerta di lavoro e che non avesse mai fornito, nelle difese successive alle dichiarazioni dei testi, le ragioni di tale rifiuto, né provato di aver ricercato un’occupazione, limitandosi a riferire di avere inviato un curriculum in banca e di avere difficoltà a trovare un lavoro perché priva di autovettura, la Corte revocava alla donna il contributo in denaro anche tenuto conto della breve durata del matrimonio, dell’assenza di figli e dell’età della moglie al momento della separazione.
Inutile il tentativo della donna di affermare il diritto al mantenimento sulla base del suo stato di disoccupazione, della circostanza che al suo sostentamento aveva sempre provveduto il marito specializzando in medicina, e della rilevante disparità economica confermata dalle indagini patrimoniali disposte nel corso del giudizio.
La Corte d’Appello rigettava la domanda di addebito della separazione ma in parziale accoglimento della domanda del marito, revocava il contributo alla donna in quanto l’istruttoria aveva accertato che la signora aveva rifiutato un’offerta di lavoro e che non avesse mai fornito, nelle difese successive, le ragioni di tale rifiuto, né provato di aver ricercato un’occupazione.
La controversia cosi giungeva in Cassazione dove la donna contestava la decisione affermando che nel corso del giudizio era risultato come fosse il marito a provvedere al sostentamento della famiglia mentre lei si era sempre occupata della gestione della casa, apportando alla famiglia il suo lavoro domestico; che il marito fosse titolare di un ingente patrimonio immobiliare e di un reddito di circa 1.700; che tra i due coniugi vi fosse una rilevante disparità economica (come confermato dalle indagini patrimoniali disposte nel corso della causa di primo grado). Infine lamentava l’effettiva possibilità di reperire un lavoro adeguato in Calabria anche tenuto conto che non disponeva di un’automobile.
Ma la suprema Corte non ha dubbi: dichiara inammissibile il ricorso e a proposito dell’abbandono del tetto coniugale ricorda il principio consolidato secondo il quale “il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto” (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020).
In punto mantenimento, invece, afferma che in tema di separazione personale dei coniugi, una volta accertata l’attitudine al lavoro, quale potenziale capacità di guadagno, grava sul richiedente l’onere di dimostrare di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato per reperire un’occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali e il rifiuto immotivato di una occasione lavorativa è causa di diniego del contributo al mantenimento. Irrilevante anche la valutazione della disparità dei redditi.
Alla luce di tali principi, gli Ermellini condannano la donna al pagamento delle spese di giudizio.
Al centro del nostro lavoro c’è la persona. Studio Legale Di Nella è specializzato nel Diritto delle Famiglie, Diritto Internazionale della Famiglia, Diritto Collaborativo, Diritto della Persona, Diritto dei Minori, Diritto Penale Minorile, Sottrazioni internazionali dei Minori, Diritto delle Successioni e Donazioni e Diritto dell’Immigrazione.
È Avvocato Collaborativo del Foro di Milano, componente del Comitato Scientifico della SOS Villaggi dei Bambini Onlus, membro attivo dell’Associazione Camera Minorile di Milano, socia dell’AIAF (Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori), socia dell’AIADC ( Associazione Italiana degli Avvocati di Diritto Collaborativo) nonché delle IACP ( International Academy of Collaborative Professionals), socia dell’Associazione ICALI (International Child Abducion Lawyers Italy) ed iscritta nell’elenco avvocati specializzati all’assistenza legale delle donne vittime di violenza (BURL – Serie ordinaria n.46 17.11.2016).