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Assegno divorzile: irrilevanti le dazioni patrimoniali riconosciute in separazione se permane un rilevante divario reddituale tra i coniugi.

(A cura dell’Avv. Maria Zaccara)

Gli accordi intervenuti fra le parti in sede di separazione non rilevano ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, dovendosi effettuare l’accertamento con riferimento al momento del divorzio. Detti accordi fanno chiaro riferimento non alla compensazione del contributo dato dalla moglie alla formazione del patrimonio familiare ma attengono alla suddivisione del patrimonio comune esistente in quel momento, senza alcun elemento che giustifichi una loro rilevanza ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile e delle sue funzioni. 

Questo il principio espresso con la recente Ordinanza della suprema Corte di Cassazione n. 24759 pubblicata in data 8 settembre 2025.

Il caso di specie trae origine dalla Sentenza della Corte d’Appello di Bologna che aveva confermato a favore dell’ex moglie un assegno divorzile di € 350,00 mensili e il diritto a una quota del TFR, pur escludendo le somme accantonate in un fondo di previdenza complementare. 

La Corte d’Appello aveva ritenuto infondati i motivi di impugnazione dell’ex marito, osservando anzitutto che, pur non emergendo un vero squilibrio patrimoniale, in quanto gli accordi raggiunti in sede di separazione avevano già attribuito alla donna somme significative, parte dei beni immobili, oltre alla divisione del ricavato della vendita della casa familiare, permaneva tuttavia un divario reddituale rilevante al momento del divorzio. 

In particolare, la Corte aveva accertato che l’ex moglie percepiva una pensione nettamente più bassa rispetto a quella dell’ex marito e ciò era ricollegabile al fatto che la stessa durante il matrimonio si era dedicata in via prevalente alla cura dei figli e della famiglia rinunciando così ad un avanzamento di carriera che le avrebbe consentito di percepire un’indennità mensile aggiuntiva. Grazie a ciò l’ex marito aveva potuto investire tutte le proprie energie nella carriera, progredendo fino a diventare responsabile dei processi di informatizzazione della società in cui lavorava, viaggiando spesso in Italia e all’estero e continuando a percepire redditi anche dopo il pensionamento grazie a collaborazioni coordinate e continuative.

Alla luce di ciò, la Corte felsinea aveva confermato, quindi, la sussistenza del presupposto dell’assegno perequativo che riteneva essere stato congruamente determinato nell’importo di €350,00 mensili.

Quanto al TFR, i Giudici avevano ribadito il diritto dell’ex moglie a ricevere il 40% della liquidazione maturata dall’ex marito, ma aveva escluso che tale diritto potesse estendersi alle somme accantonate nel fondo pensione integrativo (Fondo Cometa), considerandole parte della previdenza complementare e non del trattamento di fine rapporto in senso stretto.

Avverso la suddetta decisione l’ex marito proponeva ricorso per Cassazione affidandosi a due motivi. Il ricorrente lamentava, in primo luogo, l’errata applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018. 

Secondo l’ex marito, la Corte d’Appello avrebbe contraddittoriamente riconosciuto che la ex moglie era già stata adeguatamente compensata per il contributo offerto alla vita matrimoniale mediante le consistenti attribuzioni patrimoniali concordate in sede di separazione e, dopo aver accertato che tali attribuzioni avevano eliminato ogni significativo squilibrio economico tra le parti, avrebbe tuttavia duplicato la valutazione del sacrificio professionale della ex moglie, elevandolo a presupposto di un ulteriore riconoscimento economico attraverso l’assegno divorzile.

In altre parole, a parere del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe trasformato un elemento già assorbito, quale la rinuncia della donna alla propria crescita lavorativa, in una nuova e autonoma fonte di pretesa, violando così il principio per cui l’assegno non può essere disposto qualora, al momento del divorzio, la situazione economica delle parti risulti sostanzialmente paritaria.

Sotto un diverso ma connesso profilo, l’ex marito denunciavaanche la violazione dell’art. 2729 c.c., ritenendo che la Corte d’Appello avesse utilizzato in modo improprio le presunzioni semplici per stimare il danno patrimoniale derivante dalla rinuncia dell’ex moglie all’incarico di esaminatrice della Motorizzazione Civile. La Corte territoriale, valorizzando la testimonianza resa da un teste aveva quantificato in €300/400 mensili l’indennità che la donna avrebbe potuto percepire nel periodo compreso tra il 2006 e il 2019, ma, secondo il ricorrente, tale quantificazione si fonderebbe su una mera ipotesi, priva di riscontri documentali circa l’effettiva possibilità di svolgere l’attività e il relativo trattamento economico. Ne deriverebbe un pregiudizio patrimoniale accertato solo in via presuntiva, in violazione delle regole probatorie.

La Suprema Corte respinge integralmente il ricorso.

Rispetto al primo profilo del primo motivo, i giudici di legittimità osservano che la decisione della Corte d’Appello è pienamente conforme ai principi elaborati dalle Sezioni Unite e alla successiva giurisprudenza. L’assegno divorzile, infatti, svolge una funzione non solo assistenziale, ma anche compensativo–perequativa: esso mira a riequilibrare le conseguenze economiche dei ruoli familiari assunti durante il matrimonio, verificando l’esistenza, al momento del divorzio, di uno squilibrio patrimoniale causalmente riconducibile a tali scelte. In questa prospettiva, eventuali attribuzioni patrimoniali intervenute in sede di separazione non sono decisive, poiché attengono alla divisione del patrimonio comune e non eliminano automaticamente la disparità reddituale sopravvenuta. La Corte d’Appello ha correttamente accertato che, al momento dello scioglimento del vincolo, permaneva un significativo divario reddituale derivante dalla rinuncia ventennale della donna a più remunerative prospettive di carriera. È vero che la sentenza impugnata ha fatto un riferimento improprio agli accordi di separazione, ma ciò non incide sull’esattezza della decisione, che resta conforme ai criteri giurisprudenziali.

Passando al secondo profilo del primo motivo, la Cassazione esclude che vi sia stata una violazione dell’art. 2729 c.c. La Corte territoriale non ha fondato la propria decisione su una mera presunzione priva di base, ma ha valutato l’intero compendio probatorio, ritenendo attendibile e coerente la testimonianza acquisita, senza che il ricorrente abbia fornito elementi contrari idonei a incrinare tale ricostruzione. La quantificazione dell’indennità aggiuntiva, pertanto, rientra nell’apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità.

Alla luce delle suddette motivazioni il ricorso è stato rigettato e il ricorrente condannato alle spese.

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Dopo essersi diplomata al Liceo Classico Salvatore Quasimodo di Magenta, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a pieni voti presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014, con tesi in diritto dell’esecuzione penale e del procedimento penale minorile, analizzando l’istituto del “Perdono Giudiziale”.

Coltivando l’interesse per le materie di diritto della persona, dei minori e della famiglia, dall’aprile 2014 ha iniziato il percorso di pratica forense presso questo Studio, dove nel settembre de 2018, è diventata Avvocato, del Foro di Milano.