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Avv.
Maria Grazia
Di Nella

Avv. Alice Di Lallo

Avv. Angela Brancati

Avv. Maria Zaccara

Avv. Cecilia Gaudenzi

Dott. ssa Elisa Cazzaniga

Dott. ssa Chiara Massa

Da Instagram

L’attuale assetto normativo che non consente alle donne single di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l’autodeterminazione a diventare madre ma non è manifestamente irragionevole e sproporzionato.

Ancora una volta la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate questa volta dal Tribunale di Firenze in data 4 settembre 2025, sull’articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.

Una donna si era infatti rivolta al Centro procreazione assistita Demetra srl richiedendo di poter accedere alla PMA e a fronte del diniego ricevuto, la donna aveva proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo.
In via subordinata, aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo.

Ritenuto che la legge sulla PMA oggi contiene un divieto di accesso per le persone singole, il Tribunale di Firenze rimetteva la questione alla Corte Costituzionale che però ribadito che ad oggi il legislatore non avalla un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre e che quindi - di fronte a rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari - solo il legislatore può intervenire su tale assetto normativo.

Sarà la volta buona per il legislatore ? O continuerà a far finta di nulla?

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L’attuale assetto normativo che non consente alle donne single di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l’autodeterminazione a diventare madre ma non è manifestamente irragionevole e sproporzionato.

Ancora una volta la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate questa volta dal Tribunale di Firenze in data 4 settembre 2025, sull’articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.

Una donna si era infatti rivolta al Centro procreazione assistita Demetra srl richiedendo di poter accedere alla PMA e a fronte del diniego ricevuto, la donna aveva proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo.
In via subordinata, aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo. 

Ritenuto che la legge sulla PMA oggi contiene un divieto di accesso per le persone singole, il Tribunale di Firenze rimetteva la questione alla Corte Costituzionale che però ribadito che ad oggi il legislatore non avalla un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre e che quindi - di fronte a rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari -  solo il legislatore può intervenire su tale assetto normativo. 

Sarà la volta buona per il legislatore ? O continuerà a far finta di nulla?

La Corte di Cassazione con la decisione n. 12121/2025 ha affermato che “il genitore separato è tenuto a versare l’assegno al figlio ventenne, a maggior ragione se è una ragazza, se vivono al sud, dove le opportunità di lavoro sono più basse”.

La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Ragusa che, nel pronunciare la separazione personale dei coniugi, ha revocato l’assegno di mantenimento in favore della figlia, originariamente concesso in via provvisoria, poiché nel frattempo era divenuta maggiorenne.

Anche la Corte di Appello di Catania aveva confermato la revoca poiché la ragazza ormai ventenne non aveva provato di essere impegnata a studiare o a lavorare.

La madre adiva quindi la Cassazione che, invece, accogliendone il ricorso, ribadiva in modo molto approfondito che la legge, in punto diritto al mantenimento, non distingue tra figli minorenni e maggiorenni e che l’onere dei genitori non cessa automaticamente con il compimento dei 18 anni. Ciò che conta, ha ribadito la Corte è il raggiungimento dell’indipendenza economica da valutarsi con riferimento all’età, all’impegno nello studio o nel lavoro e al contesto sociale.
Gli Ermellini hanno inoltre precisato che nel valutare la situazione occorre tener conto delle esigenze, del sesso e della residenza dei figli: la figlia femminina nata e crescita al sud ha molte più difficoltà a trovare lavoro di un figlio maschio.

Inoltre, in materia di onere della prova, il padre che chiede la revoca del mantenimento deve provare le motivazioni del perché non è più dovuto - prova nel caso specifico non raggiunta dal padre.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione cassava con rinvio alla Corte di Appello di Catania per il riesame della questione.

Voi cosa ne pensate? Ha ragione la Cassazione a richiamare l’attenzione dei giudici al sesso e al luogo di residenza dei figli?

Sul blog approfondisce la decisone la Dott.ssa Elisa Cazzaniga.

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La Corte di Cassazione con la decisione n. 12121/2025 ha affermato che “il genitore separato è tenuto a versare l’assegno al figlio ventenne, a maggior ragione se è una ragazza, se vivono al sud, dove le opportunità di lavoro sono più basse”.

La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Ragusa che, nel pronunciare la separazione personale dei coniugi, ha revocato l’assegno di mantenimento in favore della figlia, originariamente concesso in via provvisoria, poiché nel frattempo era divenuta maggiorenne. 

Anche la Corte di Appello di Catania aveva confermato la revoca poiché la ragazza ormai ventenne non aveva provato di essere impegnata a studiare o a lavorare.

La madre adiva quindi la Cassazione che, invece, accogliendone  il ricorso, ribadiva in modo molto approfondito che la legge, in punto diritto al mantenimento, non distingue tra figli minorenni e maggiorenni e che l’onere dei genitori non cessa automaticamente con il compimento dei 18 anni. Ciò che conta, ha ribadito la Corte è il raggiungimento dell’indipendenza economica da valutarsi con riferimento all’età, all’impegno nello studio o nel lavoro e al contesto sociale. 
Gli Ermellini hanno inoltre precisato che nel valutare la situazione occorre tener conto delle esigenze, del sesso e della residenza dei figli: la figlia femminina nata e crescita al sud ha molte più difficoltà a trovare lavoro di un figlio maschio.

Inoltre, in materia di onere della prova, il padre che chiede la revoca del mantenimento deve provare le motivazioni del perché non è più dovuto - prova nel caso specifico non raggiunta dal padre. 

Per tali ragioni la Corte di Cassazione cassava con rinvio alla Corte di Appello di Catania per il riesame della questione.

Voi cosa ne pensate? Ha ragione la Cassazione a richiamare l’attenzione dei giudici al sesso e al luogo di residenza dei figli? 

Sul blog approfondisce la decisone la Dott.ssa Elisa Cazzaniga.

Il Tribunale di Modena, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, successivamente, condannavano un ragazzo per il reato di indebito utilizzo di carta di credito, previsto dall’art. 493-ter c.p..

L’imputato presentava ricorso per cassazione sostenendo la non punibilità tra congiunti, prevista dall’art. 649 c.p.: l’indebito utilizzo della carta del padre avrebbe leso solo il patrimonio della persona offesa, senza coinvolgere beni giuridici ulteriori.
Invocava, poi, la scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), sostenendo che fosse abitualmente autorizzato all’uso della carta di credito paterna. Infine, il ricorrente lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., rilevando che il danno arrecato ammontava a soli 30 euro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure (Cass. 7651/25).

In particolare, con riferimento all’art. 649 c.p., secondo la Cassazione il reato di indebito utilizzo di carta di pagamento ha natura plurioffensiva: non si lede solo il patrimonio del titolare della carta, ma anche l’affidabilità e la sicurezza delle transazioni economiche.

Per quanto riguarda la scriminante del consenso, il fatto che l’imputato fosse in possesso della carta e del relativo codice non dimostrava la sussistenza di un consenso attuale del padre al suo utilizzo. Anzi, è stato evidenziato che il figlio aveva utilizzato la carta per prelevare denaro per acquistare sostanze stupefacenti: il consenso del titolare della carta non può estendersi a finalità illecite.

Infine, la Corte ha evidenziato che la valutazione della particolare tenuità del fatto non può basarsi solo sull’entità del danno, ma deve tenere conto anche delle modalità della condotta: l’imputato aveva utilizzato la carta di credito per acquistare droga e, al momento del prelievo, si trovava in stato di detenzione domiciliare.

Cosa pensate di questa decisione? Scrivetelo nei commenti!

Post scritto da @avvcrespi

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Il Tribunale di Modena, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, successivamente, condannavano un ragazzo per il reato di indebito utilizzo di carta di credito, previsto dall’art. 493-ter c.p..
 
L’imputato presentava ricorso per cassazione sostenendo la non punibilità tra congiunti, prevista dall’art. 649 c.p.: l’indebito utilizzo della carta del padre avrebbe leso solo il patrimonio della persona offesa, senza coinvolgere beni giuridici ulteriori.
Invocava, poi, la scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), sostenendo che fosse abitualmente autorizzato all’uso della carta di credito paterna. Infine, il ricorrente lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., rilevando che il danno arrecato ammontava a soli 30 euro.
 
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure (Cass. 7651/25).
 
In particolare, con riferimento all’art. 649 c.p., secondo la Cassazione il reato di indebito utilizzo di carta di pagamento ha natura plurioffensiva: non si lede solo il patrimonio del titolare della carta, ma anche l’affidabilità e la sicurezza delle transazioni economiche.
 
Per quanto riguarda la scriminante del consenso, il fatto che l’imputato fosse in possesso della carta e del relativo codice non dimostrava la sussistenza di un consenso attuale del padre al suo utilizzo. Anzi, è stato evidenziato che il figlio aveva utilizzato la carta per prelevare denaro per acquistare sostanze stupefacenti: il consenso del titolare della carta non può estendersi a finalità illecite.
 
Infine, la Corte ha evidenziato che la valutazione della particolare tenuità del fatto non può basarsi solo sull’entità del danno, ma deve tenere conto anche delle modalità della condotta: l’imputato aveva utilizzato la carta di credito per acquistare droga e, al momento del prelievo, si trovava in stato di detenzione domiciliare.
 
Cosa pensate di questa decisione? Scrivetelo nei commenti!
 
Post scritto da @avvcrespi

Sul conto cointestato sul quale confluisce solo lo stipendio del marito può prelevare senza limiti la moglie anche se non lavora, e se i prelievi servono per mantenere la famiglia può prelevare anche oltre il 50% dell’importo totale.

Il caso: dopo diversi anni di matrimonio nel corso del quale nascevano ben sette figli, una donna dedita esclusivamente alla famiglia decideva di porre fine all’unione a causa delle ripetute violenze subite.

Durante la trattativa l’uomo si allontanava da casa pur sapendo di essere l’unico a lavorare e per mesi interrompeva di versare il necessario per mantenere la famiglia, con l’idea di giungere velocemente ad un accordo.

La donna però bonificava in più riprese delle somme dal conto corrente cointestato per un totale di €42.000 (su €70,0.000 iniziali) al proprio conto e così provvedeva alla famiglia e agiva in giudizio per la separazione chiedendo l’addebito.

Ritenendo fossero solo suoi i soldi sul conto, l’uomo accusava la moglie di averlo “derubato” e agiva in Tribunale chiedendo la restituzione dei soldi prelevati e la condanna della moglie per non aver acconsentito a portare avanti le trattative!

Ma il Tribunale di Milano non ha dubbi: con la sentenza n. 3810 pubblicata il 10 maggio 2025, ha respinto le domande dell’uomo chiarendo che la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità delle somme giacenti sul conto salva la prova contraria e che le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell`obbligo di contribuzione di cui all`art. 143 c.c., che nella fattispecie traggono provvista in un conto cointestato, non determinano alcun diritto al rimborso.

Ogni coniuge, infatti, contribuisce alla vita familiare in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro anche domestico . Ne consegue che la maggiore contribuzione in termini di denaro di uno dei coniugi alle spese familiari può essere coerente con la circostanza che - per scelta dei coniugi - la moglie non lavori perché dedicata alle incombenze domestiche ed alla cura dei numerosi figli.

L’uomo veniva quindi condannato alle spese di lite!

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Sul conto cointestato sul quale confluisce solo lo stipendio del marito può prelevare senza limiti la moglie anche se non lavora, e se i prelievi servono per mantenere la famiglia può prelevare anche oltre il 50% dell’importo totale.

Il caso: dopo diversi anni di matrimonio nel corso del quale nascevano ben sette figli, una donna dedita esclusivamente alla famiglia decideva di porre fine all’unione a causa delle ripetute violenze subite.

Durante la trattativa l’uomo si allontanava da casa pur sapendo di essere l’unico a  lavorare e per mesi interrompeva di versare il necessario per mantenere la famiglia, con l’idea di giungere velocemente ad un accordo.

La donna però bonificava in più riprese delle somme dal conto corrente cointestato per un totale di €42.000 (su €70,0.000 iniziali) al proprio conto e così provvedeva alla famiglia e agiva in giudizio per la separazione chiedendo l’addebito.

Ritenendo fossero solo suoi i soldi sul conto, l’uomo accusava la moglie di averlo “derubato” e agiva in Tribunale chiedendo la restituzione dei soldi prelevati e la condanna della moglie per non aver acconsentito a portare avanti le trattative!

Ma il Tribunale di Milano non ha dubbi: con la sentenza n. 3810 pubblicata il 10 maggio 2025, ha respinto le domande dell’uomo chiarendo che la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità delle somme giacenti sul conto salva la prova contraria e che le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c., che nella fattispecie traggono provvista in un conto cointestato, non determinano alcun diritto al rimborso.

Ogni coniuge, infatti, contribuisce alla vita familiare in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro anche domestico . Ne consegue che la maggiore contribuzione in termini di denaro di uno dei coniugi alle spese familiari può essere coerente con la circostanza che - per scelta dei coniugi - la moglie non lavori perché dedicata alle incombenze domestiche ed alla cura dei numerosi figli.

L’uomo veniva quindi condannato alle spese di lite!

La presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata; tale presunzione è infatti superata se al momento della registrazione della nascita la madre dichiari il figlio come naturale.

Ne consegue che la donna, in caso di mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, può intraprendere l`azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito senza che sia necessario il disconoscimento da parte del marito, ai sensi dell`art. 235 c.c.

Il caso: in costanza di matrimonio una donna siciliana intratteneva una relazione extraconiugale e rimaneva incinta. Al momento della nascita della figlia la donna - sicura che la bimba non fosse del marito - la dichiarava al Comune di Modica come figlia naturale e le attribuiva il proprio cognome.

A fronte del diniego al riconoscimento da parte del padre biologico, la donna iniziava l’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità.

Il padre biologico eccepiva la necessità di procedere prima con il disconoscimento della paternità del marito vista l’operatività della presunzione in costanza di matrimonio.

Ma Il Tribunale di Ragusa, dichiarava la minore figlia del padre naturale con conseguente obbligo di mantenimento e il rimborso delle spese per il periodo dalla nascita alla notifica della citazione. Visto il comportamento paterno, affidava la bimba in via esclusiva alla madre, e viste alla di lei presenza.

L’uomo non accettava la decisione e depositava appello che però veniva rigettato e ricorso in Cassazione ma gli Ermellini dichiaravano il ricorso inammissibile.

La minore, infatti, seppur nata in costanza di matrimonio, non era stata denunciata dalla madre come figlia del marito, così disattendendosi la presunzione di paternità tanto è vero che la bambina aveva assunto il cognome materno.

La non operatività della presunzione di cui all`art. 232 c.c., di concepimento
nell`ambito del matrimonio già deriva dall`avere il bambino assunto il cognome
della madre (art.262 c.c.).

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La presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata; tale presunzione è infatti superata se al momento della registrazione della nascita la madre dichiari il figlio come naturale.

Ne consegue che la donna, in caso di mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, può intraprendere l'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito senza che sia necessario il disconoscimento da parte del marito,  ai sensi dell'art. 235 c.c.

Il caso: in costanza di matrimonio una donna siciliana intratteneva una relazione extraconiugale e rimaneva incinta. Al momento della nascita della figlia la donna - sicura che la bimba non fosse del marito - la dichiarava al Comune di Modica come figlia naturale e le attribuiva il proprio cognome. 

A fronte del diniego al riconoscimento da parte del padre biologico, la donna iniziava l’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità.

Il padre biologico eccepiva la necessità di procedere prima con il disconoscimento della paternità del marito vista l’operatività della presunzione in costanza di matrimonio.

Ma Il Tribunale di Ragusa, dichiarava la minore figlia del padre naturale con conseguente obbligo di mantenimento e il rimborso delle spese per il periodo dalla nascita alla notifica della citazione. Visto il comportamento paterno, affidava la bimba in via esclusiva alla madre, e viste alla di lei presenza.

L’uomo non accettava la decisione e depositava appello che però veniva rigettato e ricorso in Cassazione ma gli Ermellini dichiaravano il ricorso inammissibile.

La minore, infatti, seppur nata in costanza di matrimonio, non era stata denunciata dalla madre come figlia del marito, così disattendendosi la presunzione di paternità tanto è vero che la bambina aveva assunto il cognome materno.

La non operatività della presunzione di cui all'art. 232 c.c., di concepimento
nell'ambito del matrimonio già deriva dall'avere il bambino assunto il cognome
della madre (art.262 c.c.).

➡️I nonni che non hanno coltivato un rapporto con i nipoti non hanno diritto ad incontrarli.
È questo il principio sancito dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12317/2025 pubblicata in data 9 maggio 2025.
➡️Con questa ordinanza, la Suprema Corte ha ribaltato la decisione della Corte d’Appello che aveva autorizzato gli incontri tra un minore e i nonni paterni, nonostante un rapporto inesistente e pregresse tensioni familiari.
➡️Il caso nasce da un ricorso presentato dalla madre del minore, che si era opposta alle visite con i nonni, ritenendole dannose per l’assenza di un legame affettivo e per comportamenti gravi tenuti da questi ultimi in passato.
➡️ La Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo un principio fondamentale: il diritto dei nonni non è assoluto.
L’art. 317 bis c.c. riconosce la possibilità per gli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti, ma solo se ciò risponde all’interesse superiore del minore.
➡️Non basta che la frequentazione non arrechi pregiudizio. Serve qualcosa in più:
- un beneficio concreto e positivo per il bambino,
- un bisogno affettivo reale,
- la capacità dei nonni di instaurare (o recuperare) un legame sano ed equilibrato,
- l’assenza di forti conflitti familiari che possano danneggiare il minore.
➡️ La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova valutazione conforme a questi principi.
#NonniENipoti #InteresseDelMinore
🔗 Sul nostro Blog potete leggere l’approfondimento dell`Avv. Maria Zaccara: un click sul link in bio ed uno su Blog.

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➡️I nonni che non hanno coltivato un rapporto con i nipoti non hanno diritto ad incontrarli.
È questo il principio sancito dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12317/2025 pubblicata in data 9 maggio 2025.
➡️Con questa ordinanza, la Suprema Corte ha ribaltato la decisione della Corte d’Appello che aveva autorizzato gli incontri tra un minore e i nonni paterni, nonostante un rapporto inesistente e pregresse tensioni familiari.
➡️Il caso nasce da un ricorso presentato dalla madre del minore, che si era opposta alle visite con i nonni, ritenendole dannose per l’assenza di un legame affettivo e per comportamenti gravi tenuti da questi ultimi in passato.
➡️ La Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo un principio fondamentale: il diritto dei nonni non è assoluto.
L’art. 317 bis c.c. riconosce la possibilità per gli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti, ma solo se ciò risponde all’interesse superiore del minore.
➡️Non basta che la frequentazione non arrechi pregiudizio. Serve qualcosa in più:
- un beneficio concreto e positivo per il bambino,
- un bisogno affettivo reale,
- la capacità dei nonni di instaurare (o recuperare) un legame sano ed equilibrato,
- l’assenza di forti conflitti familiari che possano danneggiare il minore.
➡️ La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova valutazione conforme a questi principi.
 #NonniENipoti #InteresseDelMinore 
🔗 Sul nostro Blog potete leggere l’approfondimento dell'Avv. Maria Zaccara: un click sul link in bio ed uno su Blog.

L’ultimo box domande è stato caratterizzato da molteplici messaggi carichi di rivendicazioni, rabbia e frustrazione nei confronti degli ex.

Ho cercato di accogliere tutto il vostro dolore dando però anche indicazioni per trasformare il dolore in possibilità di cambiamento.
Per poter accogliere tutto il nuovo che la vita ci offre, dobbiamo infatti cercare di perdonare.

Come avvocato cerco sempre di rilevare l’importanza di tenere separato l’aspetto rivendicativo da quello della giusta difesa dei diritti lesi.
Momento molto importante poiché i due aspetti non sempre coincidono.
Il diritto di difesa non ha nulla a che vedere con la vendetta.
Ci pensiamo sopra quando dobbiamo decidere se contattare o meno un legale per agire contro l’ex?
Valutiamo se è la rabbia e la frustrazione che ci fa agire o una effettiva lesione di un diritto?

Un’azione intrapresa solo per vendetta, fa più male a chi la inizia rispetto a chi la subisce.

Parola di avvocato!

#avvdinella

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L’ultimo box domande è stato caratterizzato da molteplici messaggi carichi di rivendicazioni, rabbia e frustrazione nei confronti degli ex.

Ho cercato di accogliere tutto il vostro dolore dando però anche indicazioni per trasformare il dolore in possibilità di cambiamento.
Per poter accogliere tutto il nuovo che la vita ci offre, dobbiamo infatti cercare di perdonare. 

Come avvocato cerco sempre di rilevare l’importanza di tenere separato l’aspetto rivendicativo da quello della giusta difesa dei diritti lesi.
Momento molto importante poiché i due aspetti non sempre coincidono.
Il diritto di difesa non ha nulla a che vedere con la vendetta.
Ci pensiamo sopra quando dobbiamo decidere se contattare o meno un legale per agire contro l’ex?
Valutiamo se è la rabbia e la frustrazione che ci fa agire o una effettiva lesione di un diritto?

Un’azione intrapresa solo per vendetta, fa più male a chi la inizia rispetto a chi la subisce.

Parola di avvocato!

#avvdinella

Adozione Piena: Quando l`Immaturità Genitoriale Impedisce la Tutela dei Figli 💔

La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale secondo cui il giudice deve dichiarare lo stato di adottabilità di un minore e recidere i legami con i genitori biologici quando questi sono così immaturi da non comprendere i bisogni del figlio e il mantenimento dei legami sarebbe dannoso per il suo sviluppo.

Questa decisione è stata espressa nella recentissima ordinanza n. 12032, emessa il 7 maggio 2025 all’esito di un procedimento che trae origine da una sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermata poi dalla Corte d`Appello, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità di un minore a causa dell`incapacità e immaturità genitoriale.

I giudici avevano accertato che i genitori erano privi delle competenze minime per accudire il figlio. Il padre, in particolare, presentava un basso livello cognitivo e difficoltà psicologiche che gli impedivano di comprendere le esigenze del bambino. Anche il successivo collocamento del minore in comunità - prima con la madre e poi in una comunità per soli minori - aveva evidenziato la mancanza di un legame significativo con i genitori.

La Corte d`Appello, confermando la decisione di primo grado, aveva sottolineato come il minore non mostrasse attaccamento verso i genitori e come il tentativo di mantenere un legame con la famiglia d`origine sarebbe stato "troppo difficile e confusivo" per lui.

Il padre ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata considerazione dell`adozione "mite" (art. 44 l. 184/83). La Cassazione però rigettava il ricorso, chiarendo tale istituto non è applicabile in casi di accertato stato di abbandono.

La Corte ha ribadito che il diritto del minore a crescere nella propria famiglia è fondamentale, ma che l`adozione può essere una risorsa quando non ci sono alternative praticabili.

⚖️ In conclusione, la Cassazione conferma che l`adozione è extrema ratio, ma sottolinea la necessità di considerare tutte le opzioni per tutelare al meglio il minore.

#adozione #dirittiminorili #famiglia #cassazione #minori #tutelaminori #genitorialità #diritto #sentenza #giustizia #adozionemite

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Adozione Piena: Quando l'Immaturità Genitoriale Impedisce la Tutela dei Figli 💔

La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale secondo cui il giudice deve dichiarare lo stato di adottabilità di un minore e recidere i legami con i genitori biologici quando questi sono così immaturi da non comprendere i bisogni del figlio e il mantenimento dei legami sarebbe dannoso per il suo sviluppo. 

Questa decisione è stata espressa nella recentissima ordinanza n. 12032, emessa il 7 maggio 2025 all’esito di un procedimento che trae origine da una sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermata poi dalla Corte d'Appello, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità di un minore a causa dell'incapacità e immaturità genitoriale. 

I giudici avevano accertato che i genitori erano privi delle competenze minime per accudire il figlio. Il padre, in particolare, presentava un basso livello cognitivo e difficoltà psicologiche che gli impedivano di comprendere le esigenze del bambino. Anche il successivo collocamento del minore in comunità - prima con la madre e poi in una comunità per soli minori - aveva evidenziato la mancanza di un legame significativo con i genitori. 

La Corte d'Appello, confermando la decisione di primo grado, aveva sottolineato come il minore non mostrasse attaccamento verso i genitori e come il tentativo di mantenere un legame con la famiglia d'origine sarebbe stato "troppo difficile e confusivo" per lui. 

Il padre ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata considerazione dell'adozione "mite" (art. 44 l. 184/83). La Cassazione però rigettava il ricorso, chiarendo tale istituto non è applicabile in casi di accertato stato di abbandono. 

La Corte ha ribadito che il diritto del minore a crescere nella propria famiglia è fondamentale, ma che l'adozione può essere una risorsa quando non ci sono alternative praticabili. 

⚖️ In conclusione, la Cassazione conferma che l'adozione è extrema ratio, ma sottolinea la necessità di considerare tutte le opzioni per tutelare al meglio il minore. 

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