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Da Instagram

Un bambino si trova in un parco con il padre per imparare ad andare in bicicletta senza rotelle.
Durante una manovra, urta involontariamente una donna anziana, che cade e batte la testa.
La donna, soccorsa immediatamente dal padre, muore poco dopo in ospedale per un’emorragia cerebrale.

Il padre (e anche la madre) viene indagato per omicidio colposo: secondo l’impostazione accusatoria, avrebbe dovuto vigilare meglio sul figlio.

Ma, poi, il PM chiede l’archiviazione: l’evento è stato improvviso, imprevedibile e il padre era lì, accanto al bambino, pronto a intervenire. L’evento fatale sarebbe la conseguenza di una “sfortunata casualità”; “non consentiva al padre del bambino, pur a fianco dello stesso, di intuire per tempo e/o di poter intervenire per scongiurare la disgrazia”.
Insomma non avrebbe potuto fare nulla di più di quanto ha fatto.

Il GIP ha accolto la richiesta del PM e, quindi, ha archiviato il procedimento.
Per la madre ha escluso a priori la responsabilità, perché non presente.
Al padre non può essere addebitato di non aver posto in essere la condotta esigibile idonea ad evitare l’evento: egli ha, infatti, vigilato sul minore e si è attivato per aiutare la signora.

Occorre svolgere una riflessione: non ogni evento tragico ha un colpevole. Non tutto può e deve essere punito.

Voi cosa ne pensate? È giusto escludere in questo caso la responsabilità penale del padre?

Post scritto da @avvcrespi

#minori #genitori

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Un bambino si trova in un parco con il padre per imparare ad andare in bicicletta senza rotelle.
Durante una manovra, urta involontariamente una donna anziana, che cade e batte la testa.
La donna, soccorsa immediatamente dal padre, muore poco dopo in ospedale per un’emorragia cerebrale.
 
Il padre (e anche la madre) viene indagato per omicidio colposo: secondo l’impostazione accusatoria, avrebbe dovuto vigilare meglio sul figlio.
 
Ma, poi, il PM chiede l’archiviazione: l’evento è stato improvviso, imprevedibile e il padre era lì, accanto al bambino, pronto a intervenire. L’evento fatale sarebbe la conseguenza di una “sfortunata casualità”; “non consentiva al padre del bambino, pur a fianco dello stesso, di intuire per tempo e/o di poter intervenire per scongiurare la disgrazia”.
Insomma non avrebbe potuto fare nulla di più di quanto ha fatto.
 
Il GIP ha accolto la richiesta del PM e, quindi, ha archiviato il procedimento.
Per la madre ha escluso a priori la responsabilità, perché non presente.
Al padre non può essere addebitato di non aver posto in essere la condotta esigibile idonea ad evitare l’evento: egli ha, infatti, vigilato sul minore e si è attivato per aiutare la signora.
 
Occorre svolgere una riflessione: non ogni evento tragico ha un colpevole. Non tutto può e deve essere punito.
 
Voi cosa ne pensate? È giusto escludere in questo caso la responsabilità penale del padre?
 
Post scritto da @avvcrespi
 
#minori #genitori

📜 Può un fratello validamente accettare l’eredità per conto degli altri fratelli?
La Cassazione dice di sì!
L’accettazione dell’eredità, infatti, non è un atto personalissimo e può essere validamente compiuta da un terzo: è sufficiente che il potere di accettare sia espressamente conferito (art. 1388 c.c.). Il terzo, poi, può anche accettare in modo tacito, ad esempio con la vendita di un bene ereditario. In caso di accettazione tacita, ogni successiva rinuncia da parte del chiamato all’eredità è inefficace.
È quanto affermato dalla Cass. n. 15301/2025.
Il caso? Due fratelli in lite: lui conferiva procura generale alla sorella per gestire la successione del padre e la donna vendeva un immobile dell’asse ereditario. L’indomani della vendita, il fratello – che nulla sapeva ancora della vendita - formalizzava la rinuncia all’eredità.
Saputa della vendita, però, l’uomo chiedeva alla sorella la metà del prezzo incassato sostenendo che la vendita fatta anche a suo nome in forza della procura conferitale, equivalesse ad un’accettazione tacita e che pertanto la successiva rinuncia fosse inefficacie.
A fronte del diniego della sorella, l’uomo chiedeva al Tribunale di Palermo di condannarla alla restituzione della sua parte del ricavato della vendita, ma il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che l’uomo avesse rinunciato all’eredità e che la procura non fosse sufficiente a costituire un’accettazione, neanche tacita. Allo stesso modo decideva la Corte d’Appello.
Il fratello non si fermava: proponeva ricorso in Cassazione e vinceva!
✍️ Posto che la procura rilasciata a suo tempo conteneva espressamente il potere di accettare l’eredità, che la vendita di un bene ereditario realizzata prima della rinuncia aveva effetti diretti sul rappresentato, ex art. 1388 c.c. e che la vendita è già di per sé una tacita accettazione, la sorella è obbligata a riconoscere al fratello la metà del prezzo!
📌 Una volta accettata, anche tacitamente, l’eredità non può più essere rinunciata. Semel heres, semper heres.

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📜 Può un fratello validamente accettare l’eredità per conto degli altri fratelli?
La Cassazione dice di sì!
L’accettazione dell’eredità, infatti, non è un atto personalissimo e può essere validamente compiuta da un terzo: è sufficiente che il potere di accettare sia espressamente conferito (art. 1388 c.c.). Il terzo, poi, può anche accettare in modo tacito, ad esempio con la vendita di un bene ereditario. In caso di accettazione tacita, ogni successiva rinuncia da parte del chiamato all’eredità è inefficace.
È quanto affermato dalla Cass. n. 15301/2025.
Il caso? Due fratelli in lite: lui conferiva procura generale alla sorella per gestire la successione del padre e la donna vendeva un immobile dell’asse ereditario. L’indomani della vendita, il fratello – che nulla sapeva ancora della vendita - formalizzava la rinuncia all’eredità. 
Saputa della vendita, però, l’uomo chiedeva alla sorella la metà del prezzo incassato sostenendo che la vendita fatta anche a suo nome in forza della procura conferitale, equivalesse ad un’accettazione tacita e che pertanto la successiva rinuncia fosse inefficacie.
A fronte del diniego della sorella, l’uomo chiedeva al Tribunale di Palermo di condannarla alla restituzione della sua parte del ricavato della vendita, ma il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che l’uomo avesse rinunciato all’eredità e che la procura non fosse sufficiente a costituire un’accettazione, neanche tacita. Allo stesso modo decideva la Corte d’Appello. 
Il fratello non si fermava: proponeva ricorso in Cassazione e vinceva!
✍️ Posto che la procura rilasciata a suo tempo conteneva espressamente il potere di accettare l’eredità, che la vendita di un bene ereditario realizzata prima della rinuncia aveva effetti diretti sul rappresentato, ex art. 1388 c.c. e che la vendita è già di per sé una tacita accettazione, la sorella è obbligata a riconoscere al fratello la metà del prezzo! 
📌 Una volta accettata, anche tacitamente, l’eredità non può più essere rinunciata. Semel heres, semper heres.

Rapporto nonni-nipoti impedito da condotte ostative di uno dei due genitori? La Cassazione chiarisce che la domanda di regolamentare il tempo dei nonni ex art. 337 ter e seguenti può essere articolata dall’altro genitore all’interno del procedimento di separazione con indubbio risparmio di tempi e denaro.

Accogliendo il ricorso di un padre contro la ex che impediva ai bambini di vedere la sua famiglia, la Suprema Corte sancisce la legittimazione del genitore a svolgere - oltre alle domande relative al proprio calendario di frequentazione - anche quella di regolamentazione dei rapporti fra ascendenti e nipoti alla luce dell primario interesse dei minori a veder tutelato il loro rapporto significativo con le famiglie di origine dei genitori.

Sia il Tribunale di Agrigento che la Corte d’Appello di Palermo avevano in realtà dichiarato inammissibile la domanda articolata dall’uomo ma questi non si dava per vinto e ricorreva in Cassazione ove vedeva accolta la sua pretesa.

La legittimazione del genitore, chiarisce la Cassazione, concorre con quella dei nonni a richiedere al Tribunale per i Minorenni la tutela del loro diritto ai sensi dell’art. 327 bis cc ma prevale allorquando pende già un procedimento separazione/divorzio/regolamentazione dei ruoli genitoriali, poiché il cumulo processuale delle domande da parte del genitore presenta una ratio non irragionevole (legata all`identità soggettiva delle parti in causa e alla possibilità di adottare in un unico contesto i provvedimenti più opportuni per la tutela dei minori).

Nessun dubbio invece in merito alla inammissibilità della domanda dei nonni all’interno del procedimento di separazione: la famiglia di origine non ha voce nelle separazioni!!

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Rapporto nonni-nipoti impedito da condotte ostative di uno dei due genitori? La Cassazione chiarisce che la domanda di regolamentare il tempo dei nonni ex art. 337 ter e seguenti può essere articolata dall’altro genitore all’interno del procedimento di separazione con indubbio risparmio di tempi e denaro.

Accogliendo il ricorso di un padre contro la ex che impediva ai bambini di vedere la sua famiglia, la Suprema Corte sancisce la legittimazione del genitore a  svolgere -  oltre alle domande relative al proprio calendario di frequentazione - anche quella di regolamentazione dei rapporti fra ascendenti e nipoti alla luce dell primario interesse dei minori a veder tutelato il loro rapporto significativo con le famiglie di origine dei genitori.

Sia il Tribunale di Agrigento che la Corte d’Appello di Palermo avevano in realtà dichiarato inammissibile la domanda articolata dall’uomo ma questi non si dava per vinto e ricorreva in Cassazione ove vedeva accolta la sua pretesa.

La legittimazione del genitore, chiarisce la Cassazione, concorre con quella dei nonni a richiedere al Tribunale per i Minorenni la tutela del loro diritto ai sensi dell’art. 327 bis cc ma prevale allorquando pende già un procedimento separazione/divorzio/regolamentazione dei ruoli genitoriali, poiché il cumulo processuale delle domande da parte del genitore presenta una ratio non irragionevole (legata all'identità soggettiva delle parti in causa e alla possibilità di adottare in un unico contesto i provvedimenti più opportuni per la tutela dei minori).

Nessun dubbio invece in merito alla inammissibilità della domanda dei nonni all’interno del procedimento di separazione: la famiglia di origine non ha voce nelle separazioni!!

➡️ Niente assegnazione della casa se è contro l’interesse del minore. Lo afferma la Cassazione con la recente Ordinanza n.14460/2025.
➡️ Il caso trae origine dalla Sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto il gravame proposto dalla madre di una minore avverso la Sentenza del Tribunale di Frosinone che nel pronunciare la separazione personale tra i coniugi aveva affidato in via condivisa la figlia minore collocandola presso la madre, regolato la frequentazione paterna ma aveva rigettato la domanda di assegnazione della casa coniugale della madre
➡️ La Corte d’Appello aveva ritenuto che:
* La casa coniugale non era più, da tempo, il centro della vita affettiva e relazionale della minore;
* La bambina, nata nel 2013, viveva da oltre sei anni in un nuovo contesto stabile, scolastico e familiare;
* Il ritorno nella casa originaria avrebbe rischiato di riattivare conflitti mai del tutto sopiti, anche per la presenza della nonna paterna, causa dell’allontanamento.
➡️ La madre proponeva ricorso per Cassazione, richiamando l’art. 337-sexies c.c. e la giurisprudenza secondo cui la casa familiare andrebbe assegnata al genitore collocatario, per preservare l’habitat domestico del minore.
➡️ Ma la Cassazione ha respinto il ricorso, sottolineando che:
* Il principio richiamato dalla ricorrente è valido in astratto, ma non applicabile quando la casa familiare non rappresenta più il fulcro della vita del minore;
* Il trasferimento della bambina e il nuovo radicamento affettivo e sociale costituiscono elementi prevalenti;
* Anche se il lungo tempo trascorso era dipeso dalla durata del giudizio, l’interesse del minore deve essere valutato al momento della decisione, in base al contesto di vita effettivo e attuale.
#Assegnazione #casafamiliare
🔗 Vuoi leggere l’approfondimento dell`Avv. Maria Zaccara? un click sul link in bio ed uno su Blog.

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➡️ Niente assegnazione della casa se è contro l’interesse del minore. Lo afferma la Cassazione con la recente Ordinanza n.14460/2025.
➡️ Il caso trae origine dalla Sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto il gravame proposto dalla madre di una minore avverso la Sentenza del Tribunale di Frosinone che nel pronunciare la separazione personale tra i coniugi aveva affidato in via condivisa la figlia minore collocandola presso la madre, regolato la frequentazione paterna ma aveva rigettato la domanda di assegnazione della casa coniugale della madre
➡️ La Corte d’Appello aveva ritenuto che:
* La casa coniugale non era più, da tempo, il centro della vita affettiva e relazionale della minore;
* La bambina, nata nel 2013, viveva da oltre sei anni in un nuovo contesto stabile, scolastico e familiare;
* Il ritorno nella casa originaria avrebbe rischiato di riattivare conflitti mai del tutto sopiti, anche per la presenza della nonna paterna, causa dell’allontanamento.
➡️ La madre proponeva ricorso per Cassazione, richiamando l’art. 337-sexies c.c. e la giurisprudenza secondo cui la casa familiare andrebbe assegnata al genitore collocatario, per preservare l’habitat domestico del minore.
➡️ Ma la Cassazione ha respinto il ricorso, sottolineando che:
* Il principio richiamato dalla ricorrente è valido in astratto, ma non applicabile quando la casa familiare non rappresenta più il fulcro della vita del minore;
* Il trasferimento della bambina e il nuovo radicamento affettivo e sociale costituiscono elementi prevalenti;
* Anche se il lungo tempo trascorso era dipeso dalla durata del giudizio, l’interesse del minore deve essere valutato al momento della decisione, in base al contesto di vita effettivo e attuale.
#Assegnazione #casafamiliare
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Che potenza oggi la GenZ.
Figli immersi nel conflitto genitoriale tra adulti che non si comportano come tali.
I figli si sentono in colpa, responsabili dei comportamenti dei loro genitori.
Ma quanta responsabilità hanno, invece, i genitori in questo sentire dei loro figli ?

Cosa ne pensate voi? Ditecelo nei commenti.

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Che potenza oggi la GenZ.
Figli immersi nel conflitto genitoriale tra adulti che non si comportano come tali.
I figli si sentono in colpa, responsabili dei comportamenti dei loro genitori.
Ma quanta responsabilità hanno, invece,  i genitori in questo sentire dei loro figli ?

Cosa ne pensate voi? Ditecelo nei commenti.

Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita di un animale d’affezione è oggi risarcibile, ai sensi dell’art. 2 Cost., quale lesione della sfera affettiva e relazionale della persona.

Con la decisione n. 51 del 25 gennaio 2025, il Tribunale di Prato ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita di un animale d’affezione, segnando un`importante apertura nella tutela del rapporto uomo-animale.

Il caso riguarda la morte della cagnolina Adel, affidata a una pensione estiva nel 2021. I proprietari, una famiglia con figli minori, ritenevano la struttura ancora gestita dall’Associazione Tutela Animali, con cui avevano avuto esperienze positive. Al loro ritorno, però, hanno trovato l’animale morto e abbandonato, senza alcun preavviso né assistenza veterinaria nonostante i sintomi evidenti di sofferenza. L’autopsia ha confermato che Adel è deceduta tra il 7 e l’8 agosto in condizioni gravi di disidratazione e diarrea. Testimonianze hanno evidenziato l’inazione consapevole del gestore, che non solo ha rifiutato l’aiuto, ma si è reso irreperibile. Il Tribunale ha escluso ogni responsabilità dell’A.T.A., ritenendo che avesse cessato la gestione già nel 2020, mentre ha condannato il gestore per responsabilità contrattuale e aquiliana, per violazione dell’obbligo di custodia e mancata richiesta di soccorso. Sono stati riconosciuti:

1.373 € per danni patrimoniali (pensione, autopsia, costo dell’animale)
6.000 € alla proprietaria e 4.000 € a ciascun familiare per danni morali
Oltre 7.000 € di spese legali

Il Tribunale ha affermato che la perdita dell’animale può costituire un’offesa alla sfera affettiva della persona, discostandosi dalla giurisprudenza restrittiva del 2008.

#DannoMorale #AnimaliDAffezione #TribunaleDiPrato #DirittiAnimali #Risarcimento #CustodiaAnimali #AffettoAnimale #TutelaAnimali

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Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita di un animale d’affezione è oggi risarcibile, ai sensi dell’art. 2 Cost., quale lesione della sfera affettiva e relazionale della persona.

Con la decisione n. 51 del 25 gennaio 2025, il Tribunale di Prato ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita di un animale d’affezione, segnando un'importante apertura nella tutela del rapporto uomo-animale.

Il caso riguarda la morte della cagnolina Adel, affidata a una pensione estiva nel 2021. I proprietari, una famiglia con figli minori, ritenevano la struttura ancora gestita dall’Associazione Tutela Animali, con cui avevano avuto esperienze positive. Al loro ritorno, però, hanno trovato l’animale morto e abbandonato, senza alcun preavviso né assistenza veterinaria nonostante i sintomi evidenti di sofferenza.  L’autopsia ha confermato che Adel è deceduta tra il 7 e l’8 agosto in condizioni gravi di disidratazione e diarrea. Testimonianze hanno evidenziato l’inazione consapevole del gestore, che non solo ha rifiutato l’aiuto, ma si è reso irreperibile. Il Tribunale ha escluso ogni responsabilità dell’A.T.A., ritenendo che avesse cessato la gestione già nel 2020, mentre ha condannato il gestore per responsabilità contrattuale e aquiliana, per violazione dell’obbligo di custodia e mancata richiesta di soccorso. Sono stati riconosciuti:

  1.373 € per danni patrimoniali (pensione, autopsia, costo dell’animale)
 6.000 € alla proprietaria e 4.000 € a ciascun familiare per danni morali
  Oltre 7.000 € di spese legali

Il Tribunale ha affermato che la perdita dell’animale può costituire un’offesa alla sfera affettiva della persona, discostandosi dalla giurisprudenza restrittiva del 2008.

#DannoMorale #AnimaliDAffezione #TribunaleDiPrato #DirittiAnimali #Risarcimento #CustodiaAnimali #AffettoAnimale #TutelaAnimali

Responsabili di omicidio colposo i genitori che omettono di esercitare la dovuta vigilanza durante la festa del figlio, e una minore annega.

È quanto affermato dalla Cassazione respingendo il ricorso di una coppia di genitori condannata dopo la morte di una ragazzina che aveva partecipato alla festa del figlio e, senza la sorveglianza di alcun adulto, si era tuffata in mare ed era annegata.

La tragedia si era consumata durante la festa del figlio della coppia che per il compleanno aveva invitato ventidue compagni nella sua villetta sita all`interno di un residence. Portati e affidati dai rispettivi genitori alla custodia dei genitori del festeggiato, i minori dopo il pranzo, muniti di asciugamano e costume da bagno, si erano diretti al mare ed avevano iniziato a tuffati dagli scogli, nonostante vi fosse la bandiera rossa. Una ragazzina, purtroppo, non riusciva a tornare a riva e annegava.

Secondo la Corte d’appello di Palermo, i genitori del festeggiato avrebbero dovuto vigilare costantemente sui minori loro affidati, impedendo loro di fare il bagno o, al più, accompagnandoli sulla spiaggia, tenuto conto del fatto che molti avevano manifestato detta intenzione già durante il pasto e la villetta era molto vicina al mare! Non era in alcun modo giustificabile che la coppia subito dopo il pranzo si fosse allontanata, lasciando soli ventidue ragazzini.

Vero che la coppia aveva ammonito i ragazzini dal portare avanti tale scellerato progetto ma allontanandosi non si era messa in condizione di intervenire senza indugio per fermarli, e alcuni ragazzini avevano già fatto il bagno nella mattinata, senza che la coppia se ne fosse accorta.

Il difensore dei genitori aveva proposto ricorso in cassazione ritenendo che i giudici avevano errato nella individuazione e valutazione dei doveri di vigilanza che a suo dire non potevano certo ricomprendere anche la previsione e prevenzione del bagno in mare!

Ma il ricorso veniva dichiarato inammissibile! l`iniziativa dei ragazzini e il sostanziale abbandono di costoro a se stessi, sin dalla fine del pasto era prevedibile avendo gli stessi chiaramente manifestato la loro volontà in tale senso.

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Responsabili di omicidio colposo i genitori che omettono di esercitare la dovuta vigilanza durante la festa del figlio, e una minore annega.

È quanto affermato dalla Cassazione respingendo il ricorso di una coppia di genitori condannata dopo la morte di una ragazzina che aveva partecipato alla festa del figlio e, senza la sorveglianza di alcun adulto, si era tuffata in mare ed era annegata.

La tragedia si era consumata durante la festa del figlio della coppia che per il compleanno aveva invitato ventidue compagni  nella sua villetta sita all'interno di un residence. Portati e affidati dai rispettivi genitori alla custodia dei genitori del festeggiato, i minori dopo il pranzo, muniti di asciugamano e costume da bagno, si erano diretti al mare ed avevano iniziato a tuffati dagli scogli, nonostante vi fosse la bandiera rossa. Una ragazzina, purtroppo, non riusciva a tornare a riva e annegava.

Secondo la Corte d’appello di Palermo, i genitori del festeggiato avrebbero dovuto vigilare costantemente sui minori loro affidati, impedendo loro di fare il bagno o, al più, accompagnandoli sulla spiaggia, tenuto conto del fatto che molti avevano manifestato detta intenzione già durante il pasto e la villetta era molto vicina al mare! Non era in alcun modo giustificabile che la coppia subito dopo il pranzo si fosse allontanata, lasciando soli ventidue ragazzini.

Vero che la coppia aveva ammonito i ragazzini dal portare avanti tale scellerato progetto ma allontanandosi non si era messa in condizione di intervenire senza indugio per fermarli, e alcuni ragazzini avevano già fatto il bagno nella mattinata, senza che la coppia se ne fosse accorta.

Il difensore dei genitori aveva proposto ricorso in cassazione ritenendo che i giudici avevano errato nella individuazione e valutazione dei doveri di vigilanza che a suo dire non potevano certo ricomprendere anche la previsione e prevenzione del bagno in mare!

Ma il ricorso veniva dichiarato inammissibile! l'iniziativa dei ragazzini e il sostanziale abbandono di costoro a se stessi, sin dalla fine del pasto era prevedibile avendo gli stessi chiaramente manifestato la loro volontà in tale senso.

Se i due amici non hanno stato convenuto un termine di fine contratto, il comodatario è tenuto a restituire l’immobile libero da persone e cose non appena il comodante o il suo erede lo richiede.

In caso di condivisione della casa tra due amici, alla morte della proprietaria il contratto viene meno nel momento in cui l’erede chiede la liberazione dell’immobile e non può trovare accoglimento la pretesa dell’amico della de cuis di applicazione della legge Corinna sulle convivenze!

Vero che l’art. 42 della legge Corinna prevede che in caso di morte del proprietario dell’immobile adibito a residenza comune il convivente superstite mantiene un diritto ad abitarvi per un periodo tra due e cinque anni, ma per l’applicazione di tale norma è richiesta una stabilità di vita condivisa.

Nel caso di cui trattasi, infatti, la relazione amorosa e la stabilità della convivenza tra l’uomo e la de cuius non era stata provata e non era mai stata dichiarata all’Ufficio anagrafe e pertanto non risultavano documentati i requisiti formali necessari ai fini del sorgere dei diritti di cui alle convivenze di fatto disciplinato dalla legge Cirinna.

Lo ha chiarito il Tribunale di Milano con la sentenza n. 4104/2025 pubblicato il 21 maggio 2025 al termine di un procedimento iniziato dalla madre della de cuius nei confronti dell’amico convivente della figlia morta senza lasciare testamento, stante il diniego dell’uomo di lasciare l’abitazione nonostante avesse ricevuto formale richiesta ex art 1810 cc di rilascio e di pagamento di tutte le utenze e spese condominiali del periodo.

Ne deriva che - una volta accertato che il contratto di comodato precario ha cessato i propri effetti per effetto della richiesta di restituzione del comodante ex art. 1810 c.c.- l’amico è stato condannato al rilascio dell’immobile, al pagamento degli oneri documentati di utilizzazione dell’immobile normativamente a carico del conduttore ex art. 1808 c.c e delle spese legali.

Cosa ne pensate? Qual’e il limite tra amicizia e amore?

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Se i due amici non hanno stato convenuto un termine di fine contratto, il comodatario è tenuto a restituire l’immobile libero da persone e cose non appena il comodante o il suo erede lo richiede.

In caso di condivisione della casa tra due amici, alla morte della proprietaria il contratto viene meno nel momento in cui l’erede chiede la liberazione dell’immobile e non può trovare accoglimento la pretesa dell’amico della de cuis di applicazione della legge Corinna sulle convivenze!

Vero che l’art. 42 della legge Corinna prevede che in caso di morte del proprietario dell’immobile adibito a residenza comune il convivente superstite mantiene un diritto ad abitarvi per un periodo tra due e cinque anni, ma per l’applicazione di tale norma è richiesta  una stabilità di vita condivisa. 

Nel caso di cui trattasi, infatti, la relazione amorosa e la stabilità della convivenza tra l’uomo  e la de cuius non era stata provata e non era mai stata dichiarata all’Ufficio anagrafe e pertanto non risultavano documentati i requisiti formali necessari ai fini del sorgere dei diritti di cui alle convivenze di fatto disciplinato dalla legge Cirinna. 

Lo ha chiarito il Tribunale di Milano con la sentenza n. 4104/2025 pubblicato il 21 maggio 2025 al termine di un procedimento iniziato dalla madre della de cuius nei confronti dell’amico convivente della figlia morta senza lasciare testamento, stante il diniego dell’uomo di lasciare l’abitazione nonostante avesse ricevuto formale richiesta ex art 1810 cc di rilascio e di pagamento di tutte le utenze e spese condominiali del periodo.

Ne deriva che - una volta accertato che il contratto di comodato precario ha cessato i propri effetti per effetto della richiesta di restituzione del comodante ex art. 1810 c.c.- l’amico è stato condannato al rilascio dell’immobile, al pagamento degli oneri documentati di utilizzazione dell’immobile normativamente a carico del conduttore ex art. 1808 c.c e delle spese legali. 

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