Rapporto nonni-nipoti impedito da condotte ostative di uno dei due genitori? La Cassazione chiarisce che la domanda di regolamentare il tempo dei nonni ex art. 337 ter e seguenti può essere articolata dall’altro genitore all’interno del procedimento di separazione con indubbio risparmio di tempi e denaro.

Accogliendo il ricorso di un padre contro la ex che impediva ai bambini di vedere la sua famiglia, la Suprema Corte sancisce la legittimazione del genitore a svolgere - oltre alle domande relative al proprio calendario di frequentazione - anche quella di regolamentazione dei rapporti fra ascendenti e nipoti alla luce dell primario interesse dei minori a veder tutelato il loro rapporto significativo con le famiglie di origine dei genitori.

Sia il Tribunale di Agrigento che la Corte d’Appello di Palermo avevano in realtà dichiarato inammissibile la domanda articolata dall’uomo ma questi non si dava per vinto e ricorreva in Cassazione ove vedeva accolta la sua pretesa.

La legittimazione del genitore, chiarisce la Cassazione, concorre con quella dei nonni a richiedere al Tribunale per i Minorenni la tutela del loro diritto ai sensi dell’art. 327 bis cc ma prevale allorquando pende già un procedimento separazione/divorzio/regolamentazione dei ruoli genitoriali, poiché il cumulo processuale delle domande da parte del genitore presenta una ratio non irragionevole (legata all`identità soggettiva delle parti in causa e alla possibilità di adottare in un unico contesto i provvedimenti più opportuni per la tutela dei minori).

Nessun dubbio invece in merito alla inammissibilità della domanda dei nonni all’interno del procedimento di separazione: la famiglia di origine non ha voce nelle separazioni!!
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➡️ Niente assegnazione della casa se è contro l’interesse del minore. Lo afferma la Cassazione con la recente Ordinanza n.14460/2025.
➡️ Il caso trae origine dalla Sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto il gravame proposto dalla madre di una minore avverso la Sentenza del Tribunale di Frosinone che nel pronunciare la separazione personale tra i coniugi aveva affidato in via condivisa la figlia minore collocandola presso la madre, regolato la frequentazione paterna ma aveva rigettato la domanda di assegnazione della casa coniugale della madre
➡️ La Corte d’Appello aveva ritenuto che:
* La casa coniugale non era più, da tempo, il centro della vita affettiva e relazionale della minore;
* La bambina, nata nel 2013, viveva da oltre sei anni in un nuovo contesto stabile, scolastico e familiare;
* Il ritorno nella casa originaria avrebbe rischiato di riattivare conflitti mai del tutto sopiti, anche per la presenza della nonna paterna, causa dell’allontanamento.
➡️ La madre proponeva ricorso per Cassazione, richiamando l’art. 337-sexies c.c. e la giurisprudenza secondo cui la casa familiare andrebbe assegnata al genitore collocatario, per preservare l’habitat domestico del minore.
➡️ Ma la Cassazione ha respinto il ricorso, sottolineando che:
* Il principio richiamato dalla ricorrente è valido in astratto, ma non applicabile quando la casa familiare non rappresenta più il fulcro della vita del minore;
* Il trasferimento della bambina e il nuovo radicamento affettivo e sociale costituiscono elementi prevalenti;
* Anche se il lungo tempo trascorso era dipeso dalla durata del giudizio, l’interesse del minore deve essere valutato al momento della decisione, in base al contesto di vita effettivo e attuale.
#Assegnazione #casafamiliare
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Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita di un animale d’affezione è oggi risarcibile, ai sensi dell’art. 2 Cost., quale lesione della sfera affettiva e relazionale della persona.

Con la decisione n. 51 del 25 gennaio 2025, il Tribunale di Prato ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita di un animale d’affezione, segnando un`importante apertura nella tutela del rapporto uomo-animale.

Il caso riguarda la morte della cagnolina Adel, affidata a una pensione estiva nel 2021. I proprietari, una famiglia con figli minori, ritenevano la struttura ancora gestita dall’Associazione Tutela Animali, con cui avevano avuto esperienze positive. Al loro ritorno, però, hanno trovato l’animale morto e abbandonato, senza alcun preavviso né assistenza veterinaria nonostante i sintomi evidenti di sofferenza. L’autopsia ha confermato che Adel è deceduta tra il 7 e l’8 agosto in condizioni gravi di disidratazione e diarrea. Testimonianze hanno evidenziato l’inazione consapevole del gestore, che non solo ha rifiutato l’aiuto, ma si è reso irreperibile. Il Tribunale ha escluso ogni responsabilità dell’A.T.A., ritenendo che avesse cessato la gestione già nel 2020, mentre ha condannato il gestore per responsabilità contrattuale e aquiliana, per violazione dell’obbligo di custodia e mancata richiesta di soccorso. Sono stati riconosciuti:

1.373 € per danni patrimoniali (pensione, autopsia, costo dell’animale)
6.000 € alla proprietaria e 4.000 € a ciascun familiare per danni morali
Oltre 7.000 € di spese legali

Il Tribunale ha affermato che la perdita dell’animale può costituire un’offesa alla sfera affettiva della persona, discostandosi dalla giurisprudenza restrittiva del 2008.

#DannoMorale #AnimaliDAffezione #TribunaleDiPrato #DirittiAnimali #Risarcimento #CustodiaAnimali #AffettoAnimale #TutelaAnimali
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Responsabili di omicidio colposo i genitori che omettono di esercitare la dovuta vigilanza durante la festa del figlio, e una minore annega.

È quanto affermato dalla Cassazione respingendo il ricorso di una coppia di genitori condannata dopo la morte di una ragazzina che aveva partecipato alla festa del figlio e, senza la sorveglianza di alcun adulto, si era tuffata in mare ed era annegata.

La tragedia si era consumata durante la festa del figlio della coppia che per il compleanno aveva invitato ventidue compagni nella sua villetta sita all`interno di un residence. Portati e affidati dai rispettivi genitori alla custodia dei genitori del festeggiato, i minori dopo il pranzo, muniti di asciugamano e costume da bagno, si erano diretti al mare ed avevano iniziato a tuffati dagli scogli, nonostante vi fosse la bandiera rossa. Una ragazzina, purtroppo, non riusciva a tornare a riva e annegava.

Secondo la Corte d’appello di Palermo, i genitori del festeggiato avrebbero dovuto vigilare costantemente sui minori loro affidati, impedendo loro di fare il bagno o, al più, accompagnandoli sulla spiaggia, tenuto conto del fatto che molti avevano manifestato detta intenzione già durante il pasto e la villetta era molto vicina al mare! Non era in alcun modo giustificabile che la coppia subito dopo il pranzo si fosse allontanata, lasciando soli ventidue ragazzini.

Vero che la coppia aveva ammonito i ragazzini dal portare avanti tale scellerato progetto ma allontanandosi non si era messa in condizione di intervenire senza indugio per fermarli, e alcuni ragazzini avevano già fatto il bagno nella mattinata, senza che la coppia se ne fosse accorta.

Il difensore dei genitori aveva proposto ricorso in cassazione ritenendo che i giudici avevano errato nella individuazione e valutazione dei doveri di vigilanza che a suo dire non potevano certo ricomprendere anche la previsione e prevenzione del bagno in mare!

Ma il ricorso veniva dichiarato inammissibile! l`iniziativa dei ragazzini e il sostanziale abbandono di costoro a se stessi, sin dalla fine del pasto era prevedibile avendo gli stessi chiaramente manifestato la loro volontà in tale senso.
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Se i due amici non hanno stato convenuto un termine di fine contratto, il comodatario è tenuto a restituire l’immobile libero da persone e cose non appena il comodante o il suo erede lo richiede.

In caso di condivisione della casa tra due amici, alla morte della proprietaria il contratto viene meno nel momento in cui l’erede chiede la liberazione dell’immobile e non può trovare accoglimento la pretesa dell’amico della de cuis di applicazione della legge Corinna sulle convivenze!

Vero che l’art. 42 della legge Corinna prevede che in caso di morte del proprietario dell’immobile adibito a residenza comune il convivente superstite mantiene un diritto ad abitarvi per un periodo tra due e cinque anni, ma per l’applicazione di tale norma è richiesta una stabilità di vita condivisa.

Nel caso di cui trattasi, infatti, la relazione amorosa e la stabilità della convivenza tra l’uomo e la de cuius non era stata provata e non era mai stata dichiarata all’Ufficio anagrafe e pertanto non risultavano documentati i requisiti formali necessari ai fini del sorgere dei diritti di cui alle convivenze di fatto disciplinato dalla legge Cirinna.

Lo ha chiarito il Tribunale di Milano con la sentenza n. 4104/2025 pubblicato il 21 maggio 2025 al termine di un procedimento iniziato dalla madre della de cuius nei confronti dell’amico convivente della figlia morta senza lasciare testamento, stante il diniego dell’uomo di lasciare l’abitazione nonostante avesse ricevuto formale richiesta ex art 1810 cc di rilascio e di pagamento di tutte le utenze e spese condominiali del periodo.

Ne deriva che - una volta accertato che il contratto di comodato precario ha cessato i propri effetti per effetto della richiesta di restituzione del comodante ex art. 1810 c.c.- l’amico è stato condannato al rilascio dell’immobile, al pagamento degli oneri documentati di utilizzazione dell’immobile normativamente a carico del conduttore ex art. 1808 c.c e delle spese legali.

Cosa ne pensate? Qual’e il limite tra amicizia e amore?
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Quando una persona subisce per anni insulti, minacce, percosse e umiliazioni in ambito familiare e viene costretta ad avere rapporti se$$uali, si pone un problema: i maltrattamenti sono un reato a sé o vengono “assortiti” nella violenza se$$uale?

La Cassazione ha fornito con la recente sentenza n. 15867/25 un principio di diritto importante: i maltrattamenti possono essere assorbiti nella violenza sessuale solo quando vi è una piena coincidenza tra le condotte, cioè quando gli atti lesivi sono esclusivamente strumentali alla violenza sessuale. Se, invece, le condotte hanno un’autonoma portata offensiva – per esempio umiliazioni sistematiche, percosse, minacce non legate all’atto se$$uale – allora i due reati concorrono.

In altre parole, non basta che i reati si svolgano nello stesso contesto: serve una vera e propria sovrapposizione funzionale e finalistica. In caso contrario, ogni condotta mantiene la sua autonomia e vengono puniti entrambi i reati.

Nel caso analizzato dalla Suprema Corte la donna era vittima da anni di una violenza domestica generalizzata, non riducibile al solo ambito se$$uale: una frattura costale provocata per motivi di gelosia (estranea a qualsiasi dinamica se$$uale) e continue minacce, come riferito dalla vittima e dai figli della coppia.

Pensate che quando la moglie si rifiutava di avere rapporti, doveva dormire nella vasca da bagno…

E voi cosa ne pensate? E’ giusto contestare e punire entrambi i reati?

Post scritto da @avvcrespi

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#maltrattamenti #coniugi
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Noi genitori abbiamo un compito difficilissimo: crescere uomini autentici, consapevoli, rispettosi, sensibili, capaci di accogliere i NO, di sentire il dolore senza frantumarsi, di piangere e disperarsi restando integri e saldi, di capire che l’amore non è controllo ma la possibilità più preziosa di essere la versione più bella di sé senza scomparire nell’altro.

Lo dobbiamo alla piccola Martina.
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Il giudice, pronunciando la separazione personale dei coniugi, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.

Questo quanto previsto dall’art. 151 comma 2 c.c., ma quando, concretamente, è possibile chiedere l’addebito della separazione a carico del marito o della moglie che abbia violato i doveri coniugali?

La vicenda che fornisce l’occasione dell’approfondimento trae origine da una decisione del Tribunale di Ferrara che pronunciava la separazione personale dei coniugi con addebito al marito stanti le dichiarazioni di un teste che affermava di aver visto il marito in un incontro amoroso con un’altra donna, poi, oltretutto, divenuta la nuova compagna dello stesso.

Se i giudici di primo grado disattendevano la ricostruzione effettuata dall’uomo che faceva risalire l’insorgere della crisi a ben tre anni prima rispetto al tradimento, la Corte di Appello di Bologna, invece, riteneva provata la tesi dell’uomo e di conseguenza riformava la decisione del tribunale di Ferrara respingendo la domanda di addebito.

Arrivata la questione avanti la Corte di Cassazione, gli Ermellini con l’ordinanza n. 13858 del 24 maggio 2025, rigettavano il ricorso della donna ed affermavano che “in tema di separazione dei coniugi, va escluso l’addebito in caso di tradimento se nella coppia c’è già disaffezione. Spetta pertanto al richiedente dimostrare la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio”.

E voi che ne pensate?
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Inefficaci per il terzo creditore e quindi revocabili, gli atti di disposizione del patrimonio tra coniugi anche se attuati in esecuzione di accordi presi in sede di separazione.

➡ All’interno di un accordo di separazione, quale contributo al mantenimento della moglie, i coniugi stipulavano un atto pubblico con cui il marito cedeva alla coniuge la proprietà dell’unico immobile di cui era proprietario;

➡ Tuttavia, alla data della stipula di tale atto il marito era già debitore nei riguardi di una società terza che, tra l’altro, sulla base di un decreto ingiuntivo aveva già, senza esito, notificato pignoramenti immobiliari;

➡ Secondo i giudici, di primo e secondo grado, tale cessione costituiva pregiudizio per le ragioni creditorie della società terza avendo il debitore sottratto dal proprio patrimonio la garanzia di soddisfacimento del credito altrui e vi era altresì, nel marito, la consapevolezza di stare arrecando un danno;

➡ Pertanto, i giudici dichiaravano esperibile l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e così inefficace, nei riguardi della società creditrice, tale atto di disposizione contenuto nelle condizioni di separazione.

E voi cosa ne pensate?
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L’attuale assetto normativo che non consente alle donne single di accedere alla procreazione medicalmente assistita (PMA) limita l’autodeterminazione a diventare madre ma non è manifestamente irragionevole e sproporzionato.

Ancora una volta la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate questa volta dal Tribunale di Firenze in data 4 settembre 2025, sull’articolo 5 della legge numero 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola di accedere alla PMA.

Una donna si era infatti rivolta al Centro procreazione assistita Demetra srl richiedendo di poter accedere alla PMA e a fronte del diniego ricevuto, la donna aveva proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo.
In via subordinata, aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo.

Ritenuto che la legge sulla PMA oggi contiene un divieto di accesso per le persone singole, il Tribunale di Firenze rimetteva la questione alla Corte Costituzionale che però ribadito che ad oggi il legislatore non avalla un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre e che quindi - di fronte a rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari - solo il legislatore può intervenire su tale assetto normativo.

Sarà la volta buona per il legislatore ? O continuerà a far finta di nulla?
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La Corte di Cassazione con la decisione n. 12121/2025 ha affermato che “il genitore separato è tenuto a versare l’assegno al figlio ventenne, a maggior ragione se è una ragazza, se vivono al sud, dove le opportunità di lavoro sono più basse”.

La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Ragusa che, nel pronunciare la separazione personale dei coniugi, ha revocato l’assegno di mantenimento in favore della figlia, originariamente concesso in via provvisoria, poiché nel frattempo era divenuta maggiorenne.

Anche la Corte di Appello di Catania aveva confermato la revoca poiché la ragazza ormai ventenne non aveva provato di essere impegnata a studiare o a lavorare.

La madre adiva quindi la Cassazione che, invece, accogliendone il ricorso, ribadiva in modo molto approfondito che la legge, in punto diritto al mantenimento, non distingue tra figli minorenni e maggiorenni e che l’onere dei genitori non cessa automaticamente con il compimento dei 18 anni. Ciò che conta, ha ribadito la Corte è il raggiungimento dell’indipendenza economica da valutarsi con riferimento all’età, all’impegno nello studio o nel lavoro e al contesto sociale.
Gli Ermellini hanno inoltre precisato che nel valutare la situazione occorre tener conto delle esigenze, del sesso e della residenza dei figli: la figlia femminina nata e crescita al sud ha molte più difficoltà a trovare lavoro di un figlio maschio.

Inoltre, in materia di onere della prova, il padre che chiede la revoca del mantenimento deve provare le motivazioni del perché non è più dovuto - prova nel caso specifico non raggiunta dal padre.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione cassava con rinvio alla Corte di Appello di Catania per il riesame della questione.

Voi cosa ne pensate? Ha ragione la Cassazione a richiamare l’attenzione dei giudici al sesso e al luogo di residenza dei figli?

Sul blog approfondisce la decisone la Dott.ssa Elisa Cazzaniga.
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Il Tribunale di Modena, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, successivamente, condannavano un ragazzo per il reato di indebito utilizzo di carta di credito, previsto dall’art. 493-ter c.p..

L’imputato presentava ricorso per cassazione sostenendo la non punibilità tra congiunti, prevista dall’art. 649 c.p.: l’indebito utilizzo della carta del padre avrebbe leso solo il patrimonio della persona offesa, senza coinvolgere beni giuridici ulteriori.
Invocava, poi, la scriminante del consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), sostenendo che fosse abitualmente autorizzato all’uso della carta di credito paterna. Infine, il ricorrente lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., rilevando che il danno arrecato ammontava a soli 30 euro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure (Cass. 7651/25).

In particolare, con riferimento all’art. 649 c.p., secondo la Cassazione il reato di indebito utilizzo di carta di pagamento ha natura plurioffensiva: non si lede solo il patrimonio del titolare della carta, ma anche l’affidabilità e la sicurezza delle transazioni economiche.

Per quanto riguarda la scriminante del consenso, il fatto che l’imputato fosse in possesso della carta e del relativo codice non dimostrava la sussistenza di un consenso attuale del padre al suo utilizzo. Anzi, è stato evidenziato che il figlio aveva utilizzato la carta per prelevare denaro per acquistare sostanze stupefacenti: il consenso del titolare della carta non può estendersi a finalità illecite.

Infine, la Corte ha evidenziato che la valutazione della particolare tenuità del fatto non può basarsi solo sull’entità del danno, ma deve tenere conto anche delle modalità della condotta: l’imputato aveva utilizzato la carta di credito per acquistare droga e, al momento del prelievo, si trovava in stato di detenzione domiciliare.

Cosa pensate di questa decisione? Scrivetelo nei commenti!

Post scritto da @avvcrespi
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Sul conto cointestato sul quale confluisce solo lo stipendio del marito può prelevare senza limiti la moglie anche se non lavora, e se i prelievi servono per mantenere la famiglia può prelevare anche oltre il 50% dell’importo totale.

Il caso: dopo diversi anni di matrimonio nel corso del quale nascevano ben sette figli, una donna dedita esclusivamente alla famiglia decideva di porre fine all’unione a causa delle ripetute violenze subite.

Durante la trattativa l’uomo si allontanava da casa pur sapendo di essere l’unico a lavorare e per mesi interrompeva di versare il necessario per mantenere la famiglia, con l’idea di giungere velocemente ad un accordo.

La donna però bonificava in più riprese delle somme dal conto corrente cointestato per un totale di €42.000 (su €70,0.000 iniziali) al proprio conto e così provvedeva alla famiglia e agiva in giudizio per la separazione chiedendo l’addebito.

Ritenendo fossero solo suoi i soldi sul conto, l’uomo accusava la moglie di averlo “derubato” e agiva in Tribunale chiedendo la restituzione dei soldi prelevati e la condanna della moglie per non aver acconsentito a portare avanti le trattative!

Ma il Tribunale di Milano non ha dubbi: con la sentenza n. 3810 pubblicata il 10 maggio 2025, ha respinto le domande dell’uomo chiarendo che la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità delle somme giacenti sul conto salva la prova contraria e che le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell`obbligo di contribuzione di cui all`art. 143 c.c., che nella fattispecie traggono provvista in un conto cointestato, non determinano alcun diritto al rimborso.

Ogni coniuge, infatti, contribuisce alla vita familiare in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro anche domestico . Ne consegue che la maggiore contribuzione in termini di denaro di uno dei coniugi alle spese familiari può essere coerente con la circostanza che - per scelta dei coniugi - la moglie non lavori perché dedicata alle incombenze domestiche ed alla cura dei numerosi figli.

L’uomo veniva quindi condannato alle spese di lite!
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74 13

La presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata; tale presunzione è infatti superata se al momento della registrazione della nascita la madre dichiari il figlio come naturale.

Ne consegue che la donna, in caso di mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, può intraprendere l`azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito senza che sia necessario il disconoscimento da parte del marito, ai sensi dell`art. 235 c.c.

Il caso: in costanza di matrimonio una donna siciliana intratteneva una relazione extraconiugale e rimaneva incinta. Al momento della nascita della figlia la donna - sicura che la bimba non fosse del marito - la dichiarava al Comune di Modica come figlia naturale e le attribuiva il proprio cognome.

A fronte del diniego al riconoscimento da parte del padre biologico, la donna iniziava l’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità.

Il padre biologico eccepiva la necessità di procedere prima con il disconoscimento della paternità del marito vista l’operatività della presunzione in costanza di matrimonio.

Ma Il Tribunale di Ragusa, dichiarava la minore figlia del padre naturale con conseguente obbligo di mantenimento e il rimborso delle spese per il periodo dalla nascita alla notifica della citazione. Visto il comportamento paterno, affidava la bimba in via esclusiva alla madre, e viste alla di lei presenza.

L’uomo non accettava la decisione e depositava appello che però veniva rigettato e ricorso in Cassazione ma gli Ermellini dichiaravano il ricorso inammissibile.

La minore, infatti, seppur nata in costanza di matrimonio, non era stata denunciata dalla madre come figlia del marito, così disattendendosi la presunzione di paternità tanto è vero che la bambina aveva assunto il cognome materno.

La non operatività della presunzione di cui all`art. 232 c.c., di concepimento
nell`ambito del matrimonio già deriva dall`avere il bambino assunto il cognome
della madre (art.262 c.c.).
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➡️I nonni che non hanno coltivato un rapporto con i nipoti non hanno diritto ad incontrarli.
È questo il principio sancito dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12317/2025 pubblicata in data 9 maggio 2025.
➡️Con questa ordinanza, la Suprema Corte ha ribaltato la decisione della Corte d’Appello che aveva autorizzato gli incontri tra un minore e i nonni paterni, nonostante un rapporto inesistente e pregresse tensioni familiari.
➡️Il caso nasce da un ricorso presentato dalla madre del minore, che si era opposta alle visite con i nonni, ritenendole dannose per l’assenza di un legame affettivo e per comportamenti gravi tenuti da questi ultimi in passato.
➡️ La Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo un principio fondamentale: il diritto dei nonni non è assoluto.
L’art. 317 bis c.c. riconosce la possibilità per gli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti, ma solo se ciò risponde all’interesse superiore del minore.
➡️Non basta che la frequentazione non arrechi pregiudizio. Serve qualcosa in più:
- un beneficio concreto e positivo per il bambino,
- un bisogno affettivo reale,
- la capacità dei nonni di instaurare (o recuperare) un legame sano ed equilibrato,
- l’assenza di forti conflitti familiari che possano danneggiare il minore.
➡️ La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova valutazione conforme a questi principi.
#NonniENipoti #InteresseDelMinore
🔗 Sul nostro Blog potete leggere l’approfondimento dell`Avv. Maria Zaccara: un click sul link in bio ed uno su Blog.
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131 9

L’ultimo box domande è stato caratterizzato da molteplici messaggi carichi di rivendicazioni, rabbia e frustrazione nei confronti degli ex.

Ho cercato di accogliere tutto il vostro dolore dando però anche indicazioni per trasformare il dolore in possibilità di cambiamento.
Per poter accogliere tutto il nuovo che la vita ci offre, dobbiamo infatti cercare di perdonare.

Come avvocato cerco sempre di rilevare l’importanza di tenere separato l’aspetto rivendicativo da quello della giusta difesa dei diritti lesi.
Momento molto importante poiché i due aspetti non sempre coincidono.
Il diritto di difesa non ha nulla a che vedere con la vendetta.
Ci pensiamo sopra quando dobbiamo decidere se contattare o meno un legale per agire contro l’ex?
Valutiamo se è la rabbia e la frustrazione che ci fa agire o una effettiva lesione di un diritto?

Un’azione intrapresa solo per vendetta, fa più male a chi la inizia rispetto a chi la subisce.

Parola di avvocato!

#avvdinella
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Adozione Piena: Quando l`Immaturità Genitoriale Impedisce la Tutela dei Figli 💔

La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale secondo cui il giudice deve dichiarare lo stato di adottabilità di un minore e recidere i legami con i genitori biologici quando questi sono così immaturi da non comprendere i bisogni del figlio e il mantenimento dei legami sarebbe dannoso per il suo sviluppo.

Questa decisione è stata espressa nella recentissima ordinanza n. 12032, emessa il 7 maggio 2025 all’esito di un procedimento che trae origine da una sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermata poi dalla Corte d`Appello, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità di un minore a causa dell`incapacità e immaturità genitoriale.

I giudici avevano accertato che i genitori erano privi delle competenze minime per accudire il figlio. Il padre, in particolare, presentava un basso livello cognitivo e difficoltà psicologiche che gli impedivano di comprendere le esigenze del bambino. Anche il successivo collocamento del minore in comunità - prima con la madre e poi in una comunità per soli minori - aveva evidenziato la mancanza di un legame significativo con i genitori.

La Corte d`Appello, confermando la decisione di primo grado, aveva sottolineato come il minore non mostrasse attaccamento verso i genitori e come il tentativo di mantenere un legame con la famiglia d`origine sarebbe stato "troppo difficile e confusivo" per lui.

Il padre ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata considerazione dell`adozione "mite" (art. 44 l. 184/83). La Cassazione però rigettava il ricorso, chiarendo tale istituto non è applicabile in casi di accertato stato di abbandono.

La Corte ha ribadito che il diritto del minore a crescere nella propria famiglia è fondamentale, ma che l`adozione può essere una risorsa quando non ci sono alternative praticabili.

⚖️ In conclusione, la Cassazione conferma che l`adozione è extrema ratio, ma sottolinea la necessità di considerare tutte le opzioni per tutelare al meglio il minore.

#adozione #dirittiminorili #famiglia #cassazione #minori #tutelaminori #genitorialità #diritto #sentenza #giustizia #adozionemite
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In casi particolari e a determinate condizioni, il Giudice può disporre l’assegnazione parziale, individuando come habitat domestico solo una porzione (o un piano) della casa familiare, se la casa è molto grande, se la conflittualità genitoriale è lieve, se tale soluzione agevola la condivisione della genitorialità e non incide sui titoli di proprietà.

Il caso di oggi: divenuta maggiorenne la terza figlia (le prime due avevano raggiunto l’autonomia economica e lasciato la casa familiare) un papà chiedeva la riduzione dell`assegno di mantenimento e la revoca dell’assegnazione della casa in comproprietà con la ex moglie, anche tenuto conto che la ex nel frattempo si era risposata.

Poiché il Tribunale di Reggio Calabria respingeva le sue domande, l’uomo faceva reclamo alla Corte d`Appello che accoglieva parzialmente le domande dell’uomo: il mantenimento veniva confermato ma - dopo avere appurato che l’abitazione familiare si sviluppava su due piani - confermava l’assegnazione solo in relazione al piano terra e assegnava il primo piano al padre!

A fronte di una tale decisione la madre adiva la Cassazione chiedendo di poter riavere il godimento dell’intera casa familiare e vinceva!

La Cassazione ha chiarito che in tema di assegnazione della casa familiare, anche qualora il giudice decida, previa valutazione del miglior interesse dei figli, di assegnarne solo una porzione (o una singola unità abitativa), il potere di imporre limiti al diritto di proprietà si esercita pur sempre nell’ambito dato dall`art. 337 sexies c.c., trattandosi di un provvedimento in favore del genitore convivente con i figli e nell`interesse di costoro.

Insomma, nessun provvedimento di assegnazione di porzioni di casa familiare può rendersi in favore del genitore non collocatario, restando estranea ogni valutazione degli interessi di natura solo economica o abitativa dei genitori.

Nel caso di specie la casa non era del padre ma in comproprietà con la madre e il padre non era collocatario della figlia! Il giudice della separazione non può incidere sui diritti di proprietà.
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